
(Foto di Ansa)
MONDO. Israele nega e parla di incidente. Il Patriarcato latino di Gerusalemme invece scrive che gli israeliani hanno preso di mira la chiesa cattolica di Gaza, la parrocchia della Sacra Famiglia nella Striscia alla quale ogni sera Papa Francesco telefonava per sostenere i cristiani sotto le bombe.
C’è anche un conflitto di parole nella mattanza di Gaza, che cerca in tutti i modi di cambiare il volto della guerra. Tra guerre umanitarie e guerre al terrorismo in nome della sicurezza, negli ultimi decenni la semantica dell’orrore è diventata evanescente. Non si uccide una persona, ma si neutralizza un soggetto e se qualcosa va storto ecco i danni collaterali, l’incidente, poiché è impossibile che l’esercito israeliano, sempre definito con «Idf», acronimo di Forze israeliane di difesa, possa portare a termine un attacco di offesa.
La narrazione di un conflitto è più importante del conflitto stesso e le parole sono solo la versione non detonante del cannone. Così la retorica dell’incidente e non del crimine di guerra permette a tutti, da Tel Aviv alla Comunità internazionale, di autoassolversi e ritenersi immuni e non colpevoli dell’ossessione, che in nome della guerra al terrore e della sicurezza, ha trasformato la Striscia in un’area dove Israele officia ogni giorno dal 7 ottobre 2023 sacrifici umani e procede allo sterminio dei palestinesi. La chiesa della Sacra Famiglia non nasconde terroristi.
Lì abita una umanità dolente, è solo un presidio di carità contro il male assoluto. E quel presidio al governo di Netanyahu dà un fastidio enorme. Già padre Romanelli era stato invitato a sgomberare, avvertimenti verbali e pallottole vere dei cecchini dell’esercito di difesa, che avevano ucciso due donne nel cortile della parrocchia. Ma lui e i suoi hanno resistito e forse la soluzione finale del destino di Gaza è stata rimandata anche per via della loro presenza e per le quotidiane telefonate di Francesco. Ieri è arrivato il secondo avvertimento, parte di una strategia che il resto del mondo non vuole vedere. Non importa se le bombe sono piovute dal cielo o sono state sparate dai carri armati. I dettagli non contano nella lista quotidiana delle stragi. Conta il risultato, cioè la disarticolazione di tutte le strutture della società civile, dalle case agli ospedali alle scuole ai luoghi di culto, e la trasformazione della vita delle persone in una lotta drammatica per la sopravvivenza.
Le bombe sulla Sacra Famiglia non sono un incidente, le vittime non sono un danno collaterale, come non lo sono i 60mila palestinesi uccisi dal 7 ottobre, decimazione di massa dopo l’attacco di Hamas. Sono l’esito di una precisa politica, perseguita fin qui nella totale impunità da parte di Israele, che mira alla deportazione dei palestinesi. Ieri nella parrocchia di Gaza si sono contati solo tre morti in più da aggiungere alla lista del sangue quotidiano. La Caritas di Gerusalemme in una nota di qualche giorno fa ha usato parole pesantissime per descrivere l’ultimo capitolo del genocidio: «Assalto alla dignità umana». I giudici del Tribunale internazionale traducono, secondo la giurisprudenza, in crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
L’esercito israeliano spara sulla folla che preme in fila per l’acqua, accreditando la solita tesi dell’incidente, pallottole al posto dei manganelli: 875 morti. Il mondo si indigna ad intermittenza, ma in realtà è ostaggio di un criminale di guerra, che punta la pistola e spara contro chiunque, politica del trattare sotto la pressione del fuoco, autorizzata dall’alleato supremo che ogni giorno ci consola con il sensazionalismo banale di spiragli di pace e di una tregua mai così vicina. Chi abita a Gaza non è uomo, donna, bambino. Non ha faccia né nome. Così tutto si può giustificare senza rimorso.
Il governo di Tel Aviv dopo il 7 ottobre si era giustificato tra gli applausi di combattere contro «animali umani». Non era una metafora, per quanto cinica, ma una precisa premessa dell’avvio di un genocidio. Negare la dignità umana, come ha denunciato Caritas Gerusalemme, autorizza lo sterminio. Rendere impossibile la vita con le bombe, ma anche con la distruzione dei pozzi (27 solo due giorni fa), il blocco di ogni aiuto, la fine del trattamento delle acque reflue, della raccolta dei rifiuti, è la strada più sicura per avvicinarlo. Senza rammarico.
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