Siamo in guerra
Ma ci sono differenze

«Siamo in guerra». I governi di mezzo mondo, persino Trump, sono concordi nel lanciare l’allarme. Guerra è e guerra sia. Ma di quale guerra parliamo? Una similitudine evidenzia le consonanze, ma occulta le dissonanze. Nulla si riduce a una semplice replica. Coronavirus è certo una guerra, ma anomala. Nei conflitti ogni comunità è chiamata a sostenere uno sforzo massimo. Saltano allora le regole correnti della vita associata. È lo Stato che s’incarica di guidare, potenziare, coordinare gli sforzi.

Mai come in tempo di guerra l’economia diventa materia di sua competenza, anche per paesi in cui la proprietà privata e i diritti individuali sono sacri. La mobilitazione militare va di pari passo con la mobilitazione industriale. I diritti del cittadino (di parola, di stampa, di associazione, di sciopero, ecc.) sono subordinati allo «stato d’eccezione». Censura, coprifuoco, tesseramento alimentare, presidio militare del territorio, chiusura delle frontiere diventano moneta corrente. Come si vede, oltre a condividere lo stesso stato d’ansia e d’allarme per la vita propria e dei propri cari, sono molte le somiglianze riscontrabili tra guerra vera e l’odierna emergenza coronavirus. Una sorta di coprifuoco diurno e notturno, movimenti sul territorio regolamentati, vita economica sottoposta a vincoli stringenti.

Fin qui le somiglianze. Ci sono però significative differenze. Nei conflitti militari l’economia si distorce tantissimo. Saltano, infatti, i normali meccanismi di mercato. In compenso la produzione gira a pieno regime. C’è bisogno di tutto: di armi, di vestiario, di cibo, di beni di ogni tipo. Si realizza con ciò un regime di piena occupazione. I giovani sono sotto le armi, donne, bambini, anziani sono irregimentati al lavoro. Tutto il contrario di quello cui stiamo assistendo oggi. Sono crollate al contempo offerta e domanda dei beni. Il lavoro per molti è stato sospeso, per altri è venuto letteralmente meno. C’è il pericolo inoltre che alcune attività non riescano più a riprendersi.

C’è da ultimo il carico di problemi che viene consegnato al dopo emergenza. La fine della guerra e il rientro dalla situazione del coronavirus sono due passaggi, sì, entrambi parimenti complicati, non però pienamente assimilabili. Alla fine delle due guerre mondiali sono stati molti e gravi i problemi da affrontare: la ricostruzione edilizia dopo le pesanti distruzioni prodotte dai massicci bombardamenti aerei, la riconversione produttiva dalla produzione di armi a quella di beni di consumo, una finanza pubblica disastrata da un’inflazione a doppia cifra e dall’esplosione del debito pubblico. Anche il conto della pandemia coronavirus sarà salato, forse però ancor più salato di quello delle guerre passate: un ampliamento fuori misura del debito pubblico, una pesante desertificazione industriale, il collasso della rete commerciale, una spirale deflazionistica, notoriamente d’ostacolo alla ripresa.

Nell’immediato tutte le nostre energie umane e finanziarie sono assorbite – ci mancherebbe – dall’emergenza sanitaria. Non possiamo, però, disinteressarci dell’emergenza economica che nel frattempo sta montando. Sappiano i politici che i loro concittadini, passata la tempesta, li giudicheranno meno per quel che di positivo sono riusciti a fare per superare l’emergenza che non per le pesanti difficoltà economiche nel frattempo insorte e non adeguatamente affrontate. Conte si atteggia oggi a novello Churchill, lo statista che ebbe il coraggio di chiedere agli inglesi «lacrime e sangue» pur di salvare il suo paese da Hitler. Sappia, però, che alla fine della guerra l’indubbio meritorio salvatore della patria fu licenziato dai suoi elettori senza troppi complimenti per le ristrettezze in cui si erano ritrovati a dibattersi.

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