Stop alla povertà
Illusione cinese

Il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che la Cina ha concluso la sua «lunga marcia» contro la povertà. La proclamazione della «vittoria finale» da parte del segretario generale del Partito comunista cinese è contenuta in un discorso pronunciato a Pechino nel corso di un incontro organizzato per celebrare i risultati raggiunti dal Paese nello sradicamento dell’indigenza e onorare coloro che si sono distinti maggiormente in questa battaglia, diventando dei veri e propri modelli da seguire.

Ma è davvero così? Oppure dietro il «miracolo cinese» si cela la propaganda di un regime che per molti aspetti ha conservato tutti i metodi della comunicazione dei regimi totalitari? Ci sono poi molti dubbi sui criteri di misurazione, sulla veridicità dei rapporti, sulla sostenibilità dei provvedimenti e soprattutto sulla disumanità delle decisioni, come quelle dei trasferimenti e degli sradicamenti di massa dai territori e dalle comunità in cui la gente era nata e aveva affetti e radici da generazioni. Milioni di persone sono stati trasferiti forzosamente dalle aree rurali ai centri urbani, le loro abitazioni abbattute con la ruspa, i piccoli centri agricoli cancellati dalle mappe geografiche. Pare che la scelta dei villaggi da smantellare in molti casi fosse decisa da funzionari corrotti disposti a risparmiare le comunità che pagavano cospicue mazzette.

Sta di fatto che, al netto di tutto questo, negli ultimi otto anni la Cina avrebbe sollevato dalla miseria più nera i restanti 98,99 milioni di residenti poveri delle aree rurali che ancora vivevano al di sotto dell’attuale soglia nazionale di povertà. Tutte le ultime 832 contee e i restanti 128.000 villaggi poveri del Paese sono stati rimossi dall’elenco nazionale degli enti colpiti dall’indigenza.

Si conclude così la serie di piani quinquennali lanciati negli anni ’70 e intensificati nove anni fa, nel 2012, con una serie di riforme e di provvedimenti molto discutibili, quando le persone in condizioni miserevoli erano pari a poco più della popolazione della Germania. In tutto in mezzo secolo circa 750 milioni di persone sono uscite dai parametri che li inserivano nella povertà assoluta (corrispondente al tasso mondiale del sessanta per cento). In che cosa consisteva il miglioramento? Non solo dal punto di vista economico. Trasferendosi nelle città questa gente aveva accesso a istruzione, acqua potabile, cibo, vestiario e quasi sempre protezione sanitaria. Il resto lo ha fatto il capitalismo cinese - strana mistura di comunismo e liberismo selvaggio - che ha portato all’estensione della classe media. Oggi il reddito pro capite cinese è dieci volte quello del 2000 e poco più della metà della popolazione rientra nella classe di reddito media secondo la classificazione della Banca Mondiale (tra 3.650 e 18.250 dollari l’anno). Ma i problemi di questi innesti forzati rimangono, se si pensa solo alle difficoltà di integrazione tra popolazione urbana e nuovi arrivati. In questo campo è tutto relativo, specialmente nella concezione moderna, sempre più legata a criteri psicanalitici e sociali. L’economia cognitiva è una nuova branca disciplinare che si è sviluppata in ambito accademico, soprattutto dopo l’attribuzione del Nobel a Vernon Smith e Kahneman nel 2002 e che in Italia è portato avanti dalla «scuola di Bologna» di Stefano Zamagni. In Cina sono aumentate le disuguaglianze e i disadattamenti, vera radice dell’infelicità. Inoltre nelle città il costo della vita è più alto e se dunque sulla carta i nuovi arrivati sono più ricchi di quando vivevano nel villaggio – diciamo meno poveri – in realtà in proporzione soffrono maggiormente le difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

Ora Xi Jinping promette una migliore redistribuzione del reddito. E se la cancellazione della povertà solleva dubbi, questo secondo obiettivo è ancora più gravido di scetticismo, visto che negli ultimi anni il divario tra una piccola minoranza di ricchi e il resto del mondo - non soltanto in Cina - è aumentata a dismisura. E qui viene in mente la fattoria degli animali di Orwell. Insomma, c’è un forte odore di totalitarismo dietro la fine della povertà in Cina, ma speriamo di sbagliarci.

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