Terrorismo, la verità bene pubblico e necessario

L’intervista del presidente Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo, rappresenta uno strumento indispensabile per riunire il valore della memoria, il senso della democrazia e quel «patto di cittadinanza» che sconfisse l’assalto al cuore dello Stato e che serve ancora oggi per ripartire dopo la pandemia. Il capo dello Stato ha vissuto la stagione più drammatica della Repubblica da uomo politico, da testimone e, non ultimo, dalla parte delle vittime in prima persona, avendo avuto il fratello assassinato su indicazione della mafia. La scia di sangue degli anni di piombo, dal 1969 al 1987, ha lasciato quasi 500 morti, dei quali 160 per stragi. Fra i caduti, tanti gli uomini del dialogo: il meglio della schiera dei leali servitori dello Stato.

Un nome, fra gli altri, ci riguarda da vicino: il giudice bergamasco Guido Galli, ucciso alla Statale di Milano. Nessun Paese occidentale ha subito una simile onda d’urto, una «guerra asimmetrica»: terrorismo rosso per abbattere la democrazia rappresentativa, terrorismo nero per colpire nel mucchio e sollecitare una risposta autoritaria.

L’eco della notte della Repubblica è tornata in prima pagina all’indomani degli arresti in Francia dopo quattro decenni, ma in realtà non ci ha mai abbandonato, ricomparendo ciclicamente in superficie e scomparendo solo in apparenza: fra le certezze giudiziarie, che pure ci sono state, e gli interrogativi delle zone d’ombra che, per quanto esplorate, restano tali e opache.

Riepiloghiamo i passi centrali dell’intervista di Mattarella a «Repubblica». Primo: il terrorismo è stato sconfitto con gli strumenti della democrazia, nelle aule di Tribunale, quindi «il disegno cinico di destabilizzare la giovane democrazia è stato isolato e cancellato». Secondo: l’inaccettabilità dell’area grigia di estrazione intellettuale del «né con lo Stato né con le Br». Terzo: non confondiamo contestazione del ’68 e lotte operaie del ’69 con il seguito, anzi il dibattito pubblico di quel precedente periodo ha fornito elementi per risposte positive. Quarto: «La completa verità sugli anni di piombo è un’esigenza fondamentale per la Repubblica», perché «ci sono ancora ombre, spazi oscuri, complicità non pienamente chiarite».

Questo è il punto essenziale per sostenere il dovere di non dimenticare, ma anche il più delicato, una sfida davvero molto seria, che va assunta: la verità come bene pubblico. In questa cornice non sono aspetti a margine due altre considerazioni del presidente: una strategia terroristica «non esente da collegamenti a reti eversive internazionali» e la debolezza dello Stato che «si manifestò soprattutto nella impreparazione, talvolta in infedeltà». Gli specialisti ci possono dire che Mattarella non ha aggiunto nulla a ciò che già si sapeva, ma conta come la riflessione, che ripercorre in modo chiaro retroterra e tragitto del terrorismo, venga dalla più alta magistratura repubblicana. E sugli aspetti maggiormente dibattuti e scivolosi, a partire dall’assassinio di Aldo Moro nel maggio ’78 dopo 55 giorni di prigionia. Un crimine che, nel segnare di fatto la fine della Prima Repubblica, ha eliminato l’uomo che intendeva estendere il perimetro della democrazia con il governo di solidarietà nazionale, associando il Pci alla maggioranza parlamentare.

Nell’interpretazione di Moro, questa formula avrebbe dovuto prevedere una terza fase in cui si sarebbe potuta realizzare una fisiologica alternanza fra democristiani e comunisti alla guida del Paese, raggiungendo così una piena autonomia della sovranità italiana. Sembra ormai accettata, a livello storiografico, l’idea che il terrorismo sia stata l’espressione di una guerra civile a bassa intensità nel contesto della Guerra fredda. L’Italia frontiera geopolitica dove convergevano, in modo autonomo fra loro, più interessi internazionali e nazionali: fra il blocco orientale e occidentale sullo sfondo del conflitto arabo-israeliano, tra il «partito armato» e l’area dell’oltranzismo atlantico. Che le Br siano state un fenomeno interno o siano state eterodirette, resta un enigma irrisolto: il capitolo più controverso. Il presidente Pertini, è solo un esempio, propendeva per la prima ipotesi, Virginio Rognoni (successore di Cossiga alla guida del ministero dell’Interno) continua a escluderlo. Semmai, aggiunge, lo scandalo è che non si sia riusciti a trovare la prigione di Moro, che era a Roma e non chissà dove. La verità giudiziaria ha ottenuto molto, però non tutto.

Le sentenze possono correre in parallelo con la verità storica, ma non sempre. I rapitori di Moro hanno detto ciò che non potevano non ammettere, fermandosi all’evidenza: resta il non detto. L’ultima Commissione parlamentare sul rapimento e sulla morte di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni dal 2014 al 2018, ha affermato esplicitamente che il caso non è chiuso: c’è una verità non detta. Fioroni (nel libro con Maria Antonietta Calabrò) ha precisato che il racconto acquisito si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti frutto «di un compromesso volto a formulare una “verità accettabile” sia per gli apparati dello Stato italiano sia per gli stessi brigatisti». Per 40 anni sarebbe stato ritagliato un «abito su misura», confezionando un certo tipo di versione. Sappiamo quasi tutto ed è proprio quel «quasi», tormentato e inafferrabile, che manca all’appello a far la differenza.

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