Tra prudenza e crescita

ITALIA. Quella approvata ieri al Senato, e che adesso è passata all’esame della Camera dei deputati, è una legge di Bilancio non propriamente innovativa.

Vale per il metodo con cui è stata finora discussa e con cui sarà varata, e questa certo non è una buona notizia, ma anche per il merito della stessa manovra, e in questo caso invece ci sono ragioni per felicitarsene. Iniziamo dal primo aspetto, quello di metodo. Le opposizioni hanno criticato i tempi troppo stretti della discussione parlamentare, così come la fiducia posta al Senato dall’esecutivo che ha in qualche modo «blindato» il testo. Allo stesso tempo la maggioranza, seppure in modo legittimo, ha scelto di sostenere in Aula soltanto alcune modifiche concordate preventivamente con il Governo. La limitazione del ruolo parlamentare non è mai una pratica positiva per una democrazia liberale, quali che ne siano i motivi. L’unica magra consolazione è che la corsa della Camera e del Senato ad approvare la manovra è ormai diventata un «classico» negli ultimi anni. Nel 2022 il via libera finale del Parlamento arrivò il 29 dicembre, stessa data prevista in questo 2023.

A fine mese si arrivò anche nel 2018, nel 2020 e nel 2021. Negli anni subito precedenti, perlomeno, il via libera arrivava dopo due o tre letture dei rami del Parlamento, ma è ormai solo un ricordo. Il passato più distante non è sempre stato luminoso, intendiamoci: nella Prima Repubblica, per almeno 33 volte i ritardi della manovra furono tali da far scattare addirittura l’esercizio provvisorio. Ma dagli anni ’90 a oggi, da una parte gli esecutivi hanno preso il sopravvento sul potere legislativo, dall’altra parte sono entrati in campo parametri europei e agenzie di rating internazionali; risultato: il dibattito nelle aule parlamentari è stato sempre più sacrificato. Un cambiamento radicale, almeno su questo fronte, sarebbe davvero salutare; ne beneficerebbero tutti i partiti politici.

Sul contenuto della manovra, invece, l’assenza di novità di rilievo rispetto allo scorso anno è un segnale positivo, perlomeno a detta di chi scrive. Il Governo guidato da Giorgia Meloni ha scelto infatti di privilegiare la stabilità di alcune scelte, concentrando per esempio le risorse a disposizione sul sostegno ai lavoratori con redditi medio bassi. Basti dire che la misura più rilevante della manovra, con 11 miliardi di euro stanziati su un totale di circa 25 miliardi di euro, è senza dubbio la conferma del taglio del cuneo fiscale già in vigore da luglio, 6 punti in meno per i redditi fino a 35mila euro e 7 per quelli fino a 25mila. Per rafforzarne l’effetto, arriva anche la nuova Irpef che passa da quattro a tre aliquote con l’accorpamento dei primi due scaglioni (l’aliquota del 23% sarà applicata sui redditi fino a 28mila euro).

Secondo alcune stime elaborate dal Tesoro, l’effetto combinato del taglio del cuneo e della rimodulazione dell’Irpef rimpinguerà le buste paga dei dipendenti per un massimo di 1.300 euro all’anno. E non si tratta di un’inezia, specie in tempi di inflazione da record. Lo stesso esecutivo ha resistito alle sirene che da più parti chiedevano di riaprire il dossier del Superbonus edilizio al 110%, una misura che è già costata alle casse dello Stato decine di miliardi di euro in più del previsto, che ha provocato squilibri ben poco virtuosi in tutto il mercato edilizio e non solo, e che per questa ragione è stata bruscamente depotenziata prima dal Governo Draghi e poi dall’attuale esecutivo. Due scelte di tipo diverso, dunque, ma segnate da un certo «conservatorismo» che ha almeno due meriti. Da una parte crea legittime aspettative di stabilità per milioni di lavoratori e per le famiglie che dipendono dai loro redditi, senza disperdere i soldi pubblici in mille nuovi rivoli, magari dalle ricadute impercettibili sul fronte della crescita. Dall’altra parte questo tipo di cautela evita alle finanze pubbliche potenziali brutte sorprese nei prossimi anni. Un modo, quindi, per rassicurare sia i lavoratori del nostro Paese sia i mercati internazionali che ci osservano con attenzione visto il nostro elevato livello di indebitamento pubblico. Se si vorrà continuare su questa strada, però, il prossimo anno sarà necessario fare i conti con una revisione della spesa pubblica, che sia avviata per tempo e approfondita. Farà bene al confronto democratico e alla crescita.

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