Un nuovo Iran: serve solo tempo

Mondo.Fateme Safari Rad, Ghazal Safari Rad, Sara Safari Rad e Zahra Attai, tre sorelle e una cugina, la più vecchia appena ventenne. Da oggi questi quattro nomi diventeranno un altro simbolo della rivolta delle donne che, in Iran, è stata innescata dall’uccisione, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, la ragazza che secondo la polizia morale non portava «bene» il velo, e che a sua volta ha acceso un rivolgimento globale all’interno della società iraniana, ormai pronta a contestare le fondamenta del potere degli ayatollah e ad attaccarne i simboli più vistosi, fino a bruciare la casa-museo di Ruhollah Khomeini.

Oggi non parleremmo di queste ragazze, però, se a sorpresa la guida suprema ayatollah Alì Khamenei e il suo sistema di potere non avessero mostrato, in questi decenni, che la loro strategia preferita è piegarsi ai venti contrari per rialzarsi e colpire al primo segnale di quiete. Nel 2006, nel 2009 (quando la bandiera delle proteste era stata un’altra ragazza, Neda Agha Soltan, 26 anni, uccisa da una fucilata della polizia), nel 2012, nel 2019, il regime aveva lasciato sfogare nelle piazze lo scontento e solo in un secondo tempo aveva scatenato tutto il potenziale repressivo. È quanto avviene ora, con le condanne a morte, gli spari mirati per «marchiare» per sempre i giovani manifestanti, i pestaggi, le retate, le sparizioni, il blocco totale delle comunicazioni in Rete.

Ci si può chiedere come sia possibile che una contestazione così diffusa, radicale e trasversale a tutte le componenti della società iraniana, ancora non scuota il potere degli ayatollah, ancora non li induca a qualche riforma anche solo di facciata, come la ventilata abolizione della polizia morale. Per capire questo, occorre ricordare due caratteristiche dell’Iran contemporaneo. La prima è il dualismo città-campagna, con i grandi centri urbani culturalmente ed economicamente più sviluppati e le periferie a fare da incubatrice di giovani poveri che diventano massa di manovra per il regime. La seconda, è la particolare struttura di potere economico che gli ayatollah ereditarono dallo shah e trasformarono in una formidabile leva di dominio politico e sociale. Si tratta della bonyad, le fondazioni, in teoria enti benefici, in realtà feudi produttivi e finanziari, esentati da rendiconti economici e tasse, a disposizione delle autorità religiose. La Fondazione Pahlavi, dopo la rivoluzione del 1979, divenne la Fondazione dei diseredati e dei veterani di guerra e oggi ha 200mila dipendenti in 350 aziende controllate. Ed è solo un esempio. Attraverso le bonyad gli ayatollah finanziano non solo le diverse milizie e i corpi di polizia ma offrono possibilità di lavoro e di guadagno a milioni di persone, che diventano così dipendenti da quel legame per il loro benessere quotidiano. Ci si schiera con gli ayatollah, insomma, perché sono loro a farti guadagnare, a permetterti di sposarti, di avere una casa, insomma di campare. È un patto sociale preciso, un cordone ombelicale molto difficile da recidere, anche in presenza di una contestazione che non è mai stata così aggressiva e, ripetiamolo, capace di coinvolgere i più diversi strati sociali.

Questo non vuol dire che la protesta degli iraniani sia destinata a restare senza esito. È più probabile, però, che la contestazione aperta al regime e la richiesta di riforme debba attendere di potersi saldare a fenomeni di più lungo periodo, destinati però ad aprire problemi clamorosi all’attuale gestione del potere. L’Iran è un Paese pieno di giovani: l’età media è di 27 anni e nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni è compreso il 22% della popolazione totale. Una massa inquieta che, di anno in anno, trova sempre meno ragioni per credere che la gestione politica dei clerici sciiti possa offrire solide speranze per il futuro. Non è un caso se un quarto degli studenti iraniani che si reca all’estero per periodi di studio decide di non tornare più in patria. Se a tutto questo aggiungiamo l’emarginazione del Paese dai circuiti internazionali, il perenne ostracismo politico ed economico che l’Iran è costretto a subire, l’impermeabilità del regime alla critica dal basso, si capisce che è solo questione di tempo prima che il sistema subisca l’infarto decisivo.

Certo, il tempo non è una variabile di poco conto. Qualche anno? Un decennio? E quante altre vittime nel frattempo? Non è un caso, però, se gli scontri frontali tra popolazione e istituzioni si fanno più frequenti e più duri. La società iraniana è mediamente colta, preparata, informata. Diciamo pure che lo è in misura superiore allo standard del Medio Oriente. E fa sempre più fatica a subire, a far finta di non vedere, a girare con il freno a mano tirato e il volante bloccato. Quello che è soprattutto mancato, per ora, a questo progetto di rivolta popolare è un leader, un volto riconosciuto, riconoscibile e capace di dare una sagoma alle aspirazioni collettive. Ma non è detto che debba mancare ancora a lungo.

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