
L'Editoriale
Mercoledì 15 Ottobre 2025
I giovani e il lavoro, fra ideali e algoritmi
ITALIA. Nelle miniere di carbone, un tempo, i canarini venivano portati sottoterra per segnalare l’arrivo dei gas tossici: se smettevano di cantare, voleva dire che c’era pericolo.
Oggi, nel mercato del lavoro americano, a svolgere quel ruolo di sentinelle non sono più gli uccellini gialli, ma i giovani, in particolare quelli della Generazione Z. È questa la metafora che i ricercatori della Stanford University, Erik Brynjolfsson, Bharat Chandar e Ruyu Chen, hanno scelto per descrivere il nuovo scenario nel loro studio «Canaries in the Coal Mine? Generative AI and the Future of Work for Early-Career Professionals». Una ricerca che si discosta finalmente dalle previsioni teoriche e dalle simulazioni statistiche che hanno alimentato finora il dibattito sull’Intelligenza artificiale. Gli autori non si sono limitati a stimare cosa potrebbe accadere: hanno analizzato milioni di cedolini salariali del mercato del lavoro statunitense, osservando cosa sta già accadendo. E i dati non lasciano spazio all’ottimismo: la sostituzione è in corso e colpisce soprattutto i giovani fra i 22 e i 25 anni, quelli che si affacciano per la prima volta al lavoro qualificato.
Gli algoritmi generativi
Negli Stati Uniti, i cosiddetti entry-level, cioè i ruoli junior - analisti, copywriter, addetti marketing, consulenti alle prime esperienze - sono i più esposti. Le attività ripetitive, standardizzabili o basate su testi e dati vengono sempre più affidate agli algoritmi generativi. L’Intelligenza artificiale, insomma, non sta cancellando il lavoro umano in blocco, ma ne sta riscrivendo le gerarchie: riduce le porte d’ingresso e alza l’asticella delle competenze necessarie per entrare.
In parallelo, vale la pena ricordare una recente riflessione di Suzy Welch, professoressa alla Stern School of Business della NYU, pubblicata sul «Wall Street Journal». Secondo la sua analisi, emerge un’altra «spia rossa» del mismatch generazionale: i valori della Generazione Z non sono in sintonia con quelli che oggi le aziende ricercano nei candidati. Solo il 2% dei giovani mette al primo posto il risultato, l’apprendimento continuo e un’instancabile voglia di lavorare, proprio quei tratti che molti responsabili delle assunzioni considerano essenziali. Un’analisi forse eccessivamente negativa, di certo questo disallineamento di valori amplifica la complessità dello scenario: non bastano i cambiamenti tecnologici - come l’automazione dell’IA che erode i ruoli d’ingresso - a spingere i giovani fuori dal mercato del lavoro; anche l’«ideale culturale» che le imprese prediligono rischia di escludere chi non lo condivide. E anche qui, i dati americani dicono che le aziende iniziano a prediligere le figure con esperienza rispetto ai giovani. Un fenomeno che si inizia a notare anche da noi, una deriva pericolosa per il futuro della nostra economia. Senz’altro andrà a compensare il calo demografico in continua progressione negativa, ma non potrà diventare una giustificazione alla mancanza di candidati giovani.
Le abilità relazionali premiano
In tanta negatività, uno spiraglio comunque s’intravede. Infatti, lo studio della Stanford University mostra anche che chi possiede abilità relazionali, analitiche e comunicative continua a essere richiesto e valorizzato. L’IA non sostituisce il talento umano, lo seleziona: chi sa interpretare, collaborare e dare senso alle informazioni resta indispensabile. In Italia questo scenario è ancora in arrivo, ma si avvicina rapidamente. E rischia di innestarsi su un terreno già fragile. Secondo il Rapporto dell’Osservatorio Delta Index, solo un’azienda su dieci offre percorsi di onboarding strutturati, e oltre la metà non possiede una mappatura chiara delle competenze necessarie ai diversi ruoli. Se l’Intelligenza artificiale generativa cambierà i mestieri, questo vuoto formativo potrebbe diventare un fossato. La lezione americana, invece, offre già tre direzioni concrete: formazione continua per i giovani, incentivi alle imprese che li assumono e monitoraggio costante dell’impatto dell’IA per fasce d’età e settori produttivi. Solo conoscendo dove e come l’automazione incide, sarà possibile costruire interventi tempestivi e mirati.
L’Italia, questa volta, ha il vantaggio del tempo. Anche se è poco, pochissimo, può osservare l’esperienza americana e scegliere se restare a guardare o attrezzarsi. Perché la vera sfida non è fermare l’Intelligenza artificiale, ma preparare chi dovrà viverla per primo. E trasformare un rischio in un’opportunità di crescita generazionale.
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