Il senso residuo del viaggio da Trump

MONDO. Da quando è stato fissato il sospirato appuntamento di Giorgia Meloni alla Casa Bianca sono già cambiate due o tre volte le ragioni dell’incontro.

L’agenda iniziale riguardava i dazi, quella attuale sembra vuota, di routine. C’era un rischio flop, che ora sembra superato, ma l’incontro resta difficile. Da una guerra al mondo intero, isole dei pinguini comprese, quella di Trump è adesso diventata piuttosto una regolazione di conti con la Cina. Cosa non positiva per tutti noi, intendiamoci. Se due giganti si azzuffano nel negozio di cristalleria che noi abitiamo, possiamo solo rimetterci, tanto più che i nostri cristalli (storia, cultura, welfare) sono preziosi e raffinati.

In Usa rischio recessione

Il fatto è che i due, Usa e Cina, hanno grossi problemi, con la forte tentazione di scaricarli sugli altri. Per il momento, Trump ha fatto male a sé stesso facendo male agli altri. Il classico caso di massima stupidità umana secondo la classificazione insuperabile del grande Carlo M. Cipolla. In America c’è un chiaro rischio di recessione, il colossale debito è in crescita da quando Trump è entrato in carica e non è bilanciato da risparmio privato, il dollaro è debole, l’incertezza mina la credibilità Usa, mentre in Cina l’autocrate alla guida, senza il controllo di un’opinione pubblica, può fare mosse pericolose, a cominciare dalla svalutazione guidata della sua moneta.

Trump parla di Europa

In questo quadro, capita all’Italia di essere la prima in ordine di tempo a sperimentare il trattamento stanza Ovale, dove già sono state strapazzate le illusioni di Zelensky e persino di Nethanyahu, una stanza in cui si vedono più randelli che carote, colore al massimo del primo Trump. Il fatto nuovo è che the Donald in persona ha apparentemente risolto la questione della rappresentanza europea. Oggi parla di Europa e già nel suo cartellone con il menù dei dazi non aveva elencato separatamente i 27, ma aveva scritto Unione Europea.

Il ruolo di Meloni da Trump

Problema in meno per Meloni. Certo, tramonta l’idea di essere una costruttrice di ponti: non più quello Atlantico, ma se mai quello dei sospiri tra due che fanno parte della stessa area politica. La moratoria sui dazi ha accantonato la questione più spinosa, e cioè la tentazione di andare separatamente a baciare, diciamo, la pantofola trumpiana. Va dato atto a Meloni di non aver dato retta ai Salvini che le chiedevano accordi bilaterali antieuropei, che avrebbe pagato duramente al rientro.

Ma proprio qui sta il problema-chiave per Giorgia Meloni, che deve portare in America non la sua versione di partito – nazionalista e sovranista - che le ha dato voti e sondaggi, ma quella istituzionale, che le ha dato credibilità internazionale. È il duro confronto con la realtà da parte del sovranismo, malattia infantile di questo scorcio della storia, con le nostre democrazie che scelgono, tra rabbia e spensieratezza, populismo e nazionalismo proprio mentre tutto diventa globale, dal Covid alla crisi climatica ed ora ai rapporti commerciali.Insomma, ancora una volta – di fronte alla crisi più grave – la nostra politica deve contraddirsi rispetto ai proclami della propaganda, se vuole salvarci dall’isolamento e dal declino finale.

Cosa porta Meloni da Trump

Secondo Mario Monti, che ne ha scritto sul Corriere, Meloni dovrebbe fare a Trump un sermoncino, una paternale sui rischi che lui stesso corre di scambiare l’età dell’oro con quella della pietra. Ma, conoscendo ormai il soggetto, non sarebbe la scelta migliore. L’Italia rischia l’accusa fondata di «non avere le carte» per impartire lezioni. Meloni deve se mai trangugiare il rospo e fare l’europeista, piaccia o no al suo partito e al suo alleato leghista, già abbastanza spiazzato negli ultimi tempi dalle sue simpatie trumputiniane. Dice del resto di aver concordato con la Von der Leyen le idee per ritrovare un equilibrio atlantico, a cominciare dalla proposta zero dazi reciproci.

Lo faccia con schiena diritta, usando l’asserita non ricattabilità, dimenticandosi i contorsionismi del suo Parlamento, che vota 10 mozioni diverse sulla guerra. Ha anche in mano la carta consegnatale da Giorgetti sull’impegno del 2% di spesa Nato. Non basterà, ma è già uno smacco per il patriottismo patetico di Conte e dei filo Putin della sua maggioranza. E a proposito di Giorgetti usi magari le stesse parole del ministro quando ha commentato la promozione del rating economico, attribuendola ad una sua azione «corretta, prudente, umile, seria e responsabile».

Cinque aggettivi che sono la perfetta descrizione dell’anti populismo. Colpisce soprattutto, quell’«umile», perché rovescia la propaganda quotidiana di maggioranza e opposizione. Meloni dovrebbe usarli tutti e cinque alla Casa Bianca, e acquisirà dei meriti.

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