Amica dei neonati, dalla parte della vita. Per 35 lunghi anni

L’INTERVISTA. Dal 5 luglio Giovanna Mangili, direttore del Dipartimento materno-infantile e della Patologia neonatale lascia l’ospedale «Papa Giovanni». «I momenti di gioia? Tantissimi».

In 35 anni di carriera ha visto nascere una città intera. Sono infatti oltre 100mila i bambini di cui Giovanna Mangili si è presa cura. Il direttore del Dipartimento materno-infantile e pediatrico e della Patologia neonatale dell’Asst Papa Giovanni XXIII andrà in pensione il 5 luglio, il giorno dopo il suo 70° compleanno.

In questo caso dire l’età non è una mancanza di bon ton, perché per lei il tempo sembra essersi fermato. Facendo strada tra le incubatrici della Terapia intensiva neonatale, spiega i progressi della cura, accarezza una culla, con la dolcezza e la tempra di chi non molla mai, sempre dalla parte della vita.

È emozionata all’idea di aver raggiunto questo traguardo?

«Direi di sì dopo così tanti anni, e ancora un po’ incredula. Faccio fatica a immaginare il mio futuro, ma è giusto che sia così. Non resta neanche il rimpianto di dire “mi sarei potuta fermare ancora un po’”, perché ho raggiunto il limite d’età».

È tempo di bilanci, anche personali.

«Mi sento una persona veramente privilegiata, per aver fatto un lavoro che mi piace tantissimo, in un’azienda d’eccellenza. Il lavoro è lavoro, ma che piaccia non è scontato. E se una cosa piace, la fai con passione, e la passione è quella che ti fa andare al lavoro volentieri, anche quando la fatica c’è e non è tutto rose e fiori».

Che reparto lascia dal punto di vista umano?

«Lascio una squadra eccellente di persone che lavorano bene e con passione. Tra medici e infermieri siamo 150, un bellissimo gruppo che si aiuta reciprocamente anche nei momenti di difficoltà».

E dal punto di vista tecnologico?

«Lascio un reparto con attrezzature e macchinari all’avanguardia, grazie anche alle donazioni arrivate da varie fonti, e in particolare dall’Associazione aiuto al neonato che ci affianca da 30 anni. Volontari meravigliosi, che ci sostengono in vari modi, anche occupandosi dell’accoglienza dei genitori in reparto».

I progressi hanno permesso anche una maggiore sopravvivenza di bimbi nati con patologie o estremamente prematuri?

«Si sono fatti passi da gigante, dal punto di vista delle attrezzature, dei farmaci e della conoscenza, progressi che permettono una maggiore sopravvivenza. È un cammino che va avanti, con progressi continui per migliorare l’assistenza».

Che cambiamenti ha visto nella cura del neonato?

«È cambiata soprattutto la cultura della “cura del neonato”, con un’attenzione particolare a creare l’ambiente migliore, ad esempio riducendo l’impatto di luci e rumori, per non disturbare i piccoli. Una grande conquista è stata anche l’apertura del reparto ai genitori h24. Nel caso dell’assistenza al neonato fisiologico, poi, c’è un percorso mamma-neonato insieme sin dalla sala parto. Laddove possibile non c’è più una separazione in modo da favorire il legame e l’allattamento al seno».

La sua vocazione è di quelle che nascono sin da piccoli?

«Vengo da una famiglia di medici, ma quando chiedevo a papà consigli sugli studi mi diceva “fai storia o filosofia, lascia stare medicina”, perché sapeva la responsabilità e lo stress che comporta. Medicina non è stata proprio una scelta, ci sono arrivata un po’ per esclusione. Anche Pediatria, non pensavo di farla e poi al quinto anno l’ho scelta perché non amavo tanto l’idea della chirurgia e della sala operatoria».

Una scelta che rifarebbe?

«Una scelta felicissima. Sono arrivata a Bergamo, dopo un’esperienza a Brescia, grazie al professor Angelo Colombo, che conoscevo perché avevo fatto la tesi di laurea in Patologia neonatale con sua moglie. Ho iniziato come volontaria, con due specialità, per quasi due anni ed è stata la mia fortuna. Poter unire la parte medica con la terapia intensiva e la rianimazione è più stressante, ma anche più coinvolgente».

Ci sono stati momenti difficili in cui ha pensato adesso basta?

«È capitato più di una volta di tornare a casa stanca morta e dire basta, mollo tutto. Ricordo la notte in cui è deceduto un bambino, lascia un senso di impotenza, di sconfitta. Ma poi il giorno dopo sei di nuovo lì, a combattere per altri bambini».

Ha vissuto anche la «tappa epocale» del trasloco dagli Ospedali Riuniti alla Trucca, al «Papa Giovanni».

«Ero primario da due anni, non ho dormito una settimana per la tensione e la paura. Poi invece è stato tutto perfetto».

E i momenti di gioia?

«Tantissimi, soprattutto quando vedi bambini con storie difficilissime e complesse tornare a casa con i genitori. È il bello del nostro lavoro, ed è una soddisfazione impagabile».

Con alcune famiglie ha mantenuto un legame?

«Un paio di mesi fa sono andata a mangiare una pizza con due gemelle che erano nate di 28 settimane e ora hanno 30 anni. Alcuni rapporti vanno avanti, mi mandano le foto delle ricorrenze».

Ha sempre sostenuto l’importanza di una rete sul territorio, per garantire una continuità.

«Sì, non si può pensare a un reparto “isolato”, la rete col territorio è fondamentale. Oltre al lavoro insieme all’Associazione Aiuto al neonato, di cui sono consulente scientifica, penso alla collaborazione con Casa Amoris Laetitia. Il primo bambino che hanno accolto in struttura è stato un nostro paziente fine vita. In queste situazioni è importante non lasciare i genitori soli e in questa struttura le famiglie possono trovare un’assistenza sanitaria adeguata e un accompagnamento meraviglioso di sostegno».

Con l’associazione Aiuto al neonato e la Fondazione Angelo Custode ha avviato anche il progetto innovativo «Tin acqua».

«Grazie all’attività nella piscina Siloe i bambini nati prematuri che hanno dovuto affrontare lunghe degenze e interventi acquisiscono sicurezza e abilità, un aiuto per loro e i genitori. Un progetto che continuerà».

Qual è stato il suo ultimo obiettivo?

«Lasciare un reparto “informatizzato”. La cartella informatizzata aiuterà ad accelerare i tempi e semplificare i processi, rendendo più chiaro il lavoro di medici e infermieri e aumentando qualità e sicurezza. Il processo è partito e mi auguro andrà a breve a pieno regime».

Cosa farà dal 5 luglio?

«Non ho programmi precisi, cercherò di fare quello che non sono riuscita a fare prima, con tempi meno frenetici. Mi dedicherò a fare un po’ la nonna e tornerò a studiare. Non medicina però, piuttosto storia. Se farò qualcosa, lo farò a livello di volontariato».

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