«Cerea scaltro e mosso dall’avidità. Truffa prescritta, ma fu commessa»

LA SENTENZA. Le motivazioni della condanna al manager accusato di aver raggirato la cognata dell’ex sindaco Gori per 100 milioni.

È «essenzialmente l’avidità» ad aver mosso Gianfranco Cerea, «soggetto non certo bisognoso, ma anzi benestante, che, pur di arricchirsi a dismisura, non si è accontentato di aver conseguito un ingente profitto dalla truffa commessa in danno della Caleffi , ma ha ben pensato di lucrarvi reinvestendolo in strumenti che ne rendessero difficoltosa l’individuazione». Lo scrive il giudice Alice Ruggeri nelle 139 pagine di motivazioni alla sentenza con cui il 28 maggio ha condannato in primo grado a 6 anni e 10 mesi il manager e collezionista d’arte 63enne di Bergamo. Condanna che va a sommarsi ai tre anni definitivi per le false dichiarazioni nella Voluntary disclosure (Vd).

Cerea è stato riconosciuto colpevole di autoriciclaggio per aver investito i proventi della presunta truffa da 100 milioni ai danni di Cristina Caleffi, figlia di industriali novaresi e cognata dell’ex sindaco Gori; e di tentata estorsione, per aver cercato di costringerla a ritrattare le dichiarazioni che lei rese alla Gdf nel corso dell’inchiesta sulla Vd.

La prescrizione

Prescritte invece le truffe relative alla vendita sovrapprezzo di opere d’arte e ai presunti magheggi sugli investimenti in quote societarie tramite cui l’imputato avrebbe depauperato il patrimonio di Caleffi. Ma, seppur estinte, sono state riconosciute sussistenti da Ruggeri, che sul tema è entrata nel merito e non s’è limitata ad affidarsi alla ghigliottina temporale. «Cerea – scrive –, per sua stessa ammissione uno dei massimi “collezionisti” (o meglio, “mercanti d’arte”) in Italia – era ben consapevole di vendere alla Caleffi, soggetto completamente inesperto e che si affidava ai suoi giudizi, beni di valore significativamente inferiore a quello pagato, e comunque, difficilmente commerciabili». Il giudice cita le due tele cedute alla donna nel 2011 e nel 2012 come opere di Canaletto, «sebbene già dal 2010 fossero state attribuite al Maestro di Lione». Una le viene venduta per 2.395.000 euro, nonostante Cerea nella Vd dichiari di averla acquistata a 84.181 euro.

Osserva Ruggeri che «a fronte di investimenti per 130 milioni, Caleffi ha incassato circa 8 milioni dal riscatto di una polizza, possiede opere d’arte per 26 milioni e l’immobile di via Morone a Milano (che, aggiunge, la donna avrebbe pagato due volte senza rendersi conto, ndr)», mentre il resto del suo patrimonio sarebbe finito in società nell’orbita dell’imputato. «Cerea si è limitato a far transitare progressivamente i denari della persona offesa in scatole pressoché vuote senza intraprendere alcuna concreta iniziativa economica», «non si tratta di “perdite” generate da investimenti societari andati male».

Il caso

Ciò è stato possibile perché Caleffi «s’è mostrata persona piuttosto sprovveduta nella gestione del proprio patrimonio», riponendo cieca fiducia in Cerea. Una cliente che non aveva «l’abitudine di leggere e valutare gli atti che le venivano sottoposti» Una lettura che stride col profilo tracciato dai giudici civili, per i quali – nei pronunciamenti con cui hanno ribadito il dissequestro degli 84 milioni nella disponibilità di Cerea – a Caleffi non può essere riconosciuta «una assoluta ignoranza della rischiosità delle operazioni finanziarie e sociali poste in essere». Ruggeri invece la ritiene attendibile, anche quando racconta di aver apposto firme su fogli in bianco. Mentre Cerea nella motivazioni viene dipinto come «scaltro, intelligente, inattendibile e illogico», autore di «un comportamento processuale tutt’altro che positivo, se si considera la produzione in giudizio di ampia documentazione artefatta». Un tipo dotato di «una non comune capacità a delinquere», visto che «non ha mostrato remora alcuna a compiere condotte di autoriciclaggio solo pochi mesi dopo la verifica fiscale a carico di Siff (una tra le società della sua galassia, ndr)».

Infine, il commercialista Gianluigi Signorelli e il manager Carlo Zucchinali, per i quali Ruggeri ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura per falsa testimonianza: uomini di fiducia di Cerea, «pronti a offrirgli i loro servigi» e «animati da ben pochi scrupoli».

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