Il Vescovo in Terra Santa, l’incontro con le donne beduine. «Ricuciono il futuro» - Foto

IL PELLEGRINAGGIO. L’esperienza di «Fili di pace», nel villaggio di Jahalin, in Cisgiordania, dove la formazione al ricamo e alla produzione di sapone dà lavoro a oltre cento donne. Poi l’incontro coi bambini dell’Istituto Effatà di Betlemme.

(Agenzia SIR)

Martedì 28 ottobre il pellegrinaggio dei Vescovi lombardi in Terra Santa ha fatto tappa anche nel villaggio beduino di Jahalin, in Cisgiordania, dove le Suore Comboniane guidano il progetto «Fili di pace»: formazione al ricamo, al cucito e alla produzione di sapone per oltre cento donne di dieci villaggi. Un’iniziativa che garantisce dignità e futuro a famiglie ai margini, preservando al tempo stesso il ricamo palestinese, patrimonio dell’umanità.

Si chiama «Fili di pace». «Fili» perché si insegna alle giovani donne beduine il ricamo e il cucito, oltre alla produzione di sapone. Un modo come un altro per sopravvivere, dove il lavoro non c’è»

Tra povertà, isolamento e speranza, le Comboniane costruiscono legami e comunità in un deserto segnato da confini e incertezze. Per raggiungere il villaggio di Jahalin, in Cisgiordania, bisogna attraversare il deserto. Anzi, l’«accampamento» - fatto di casupole in mattoni, terra e lamiere - è nel deserto: collocato tra la terra dei palestinesi e quella occupata dai coloni israeliani. Qui è in atto il progetto «Fili di pace». «Fili» perché si insegna alle giovani donne beduine il ricamo e il cucito, oltre alla produzione di sapone. Un modo come un altro per sopravvivere, dove il lavoro non c’è.

«In un contesto segnato da spostamenti e incertezze, il progetto offre dignità e speranza, fornendo a più di cento donne in dieci villaggi formazione e risorse per mantenere se stesse e le loro famiglie», si sentono dire i vescovi lombardi, che in questi giorni sono in pellegrinaggio in Terra Santa. L’obiettivo del progetto è anche preservare il ricamo palestinese, riconosciuto come patrimonio dell’umanità. «Fili di pace non è solo un’attività di reddito, ma una vera ancora di vita che rafforza la comunità e mantiene viva la speranza».

I beduini vivono ai margini della società. Per questa ragione suor Lourdes Garcia e suor Cecilia Sierra si sono adoperate, assieme ad altre cinque consorelle, per realizzare alcune scuole materne per bambine e bambini dai 3 ai 5 anni. Il capovillaggio, Jihan Frenhat, ci dà il benvenuto; poi le suore introducono il folto gruppo italiano alla vita di questi villaggi e degli stessi beduini. Quindi prende la parola Ahmad Frehnat, una delle tre maestre. L’orgoglio di questa piccola comunità è legato al fatto che le tre maestre, figlie di queste famiglie, hanno potuto laurearsi e dunque mettersi al servizio dell’istruzione di questi ragazzini: «Qui imparano a leggere e scrivere, le nostre tradizioni, i nostri valori, la storia di questo Paese. Così, a sei anni, potranno frequentare la scuola. Anche se, per chi vive qui, è difficile partecipare alla vita sociale: siamo isolati, poi ci sono i controlli, il muro…».

Nel racconto si intravedono parecchi «non detti», ma qualcuno si intuisce: qui si teme che l’espansione dei coloni israeliani e la realizzazione di altri insediamenti e strade porti via anche questa poca terra abitata ai beduini. «E poi? Dove andremo?», sussurra un’altra maestra.

L’accoglienza riservata agli ospiti è calorosa. Si chiacchiera, si bevono caffè e tè. Il tempo non scorre alla velocità dell’orologio: le occasioni di incontro, per ascoltare soprattutto, diventano provvidenziali. Qualche vescovo, assieme agli accompagnatori, accenna a «’O sole mio», seguito da «O mia bela Madunina»: si canta insieme. La maestra Ahmad aggiunge: «È difficile essere beduini, vivere nel deserto, senza diritti, con pochi servizi. Ancora di più lo è per le donne». Suor Lourdes osserva: «Sono stati gli stessi beduini a chiederci di realizzare una scuola per i loro figli. Ora abbiamo cinque asili». Una piccola capanna di legni e lamiere costituisce la scuola. Qualche banchetto, una lavagna, pochi quaderni. Tantissimi sorrisi e saluti, in arabo. Infine, ci accompagnano con un italianissimo «ciao». E si riparte per Betlemme, verso il complesso della Natività, nella cui chiesa di Santa Caterina l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha celebrato la Messa.

I bambini di Betlemme

E sono stati ancora i bambini, dopo quelli incontrati al mattino nel villaggio beduino nel deserto di Giuda, i protagonisti degli incontri che nel pomeriggio hanno coinvolto i vescovi lombardi pellegrini in Terrasanta.
Anzitutto i piccoli dell’Istituto Effatà, a Betlemme, uno dei lasciti più belli del celebre viaggio nel 1964 di Paolo VI, che volle fortemente quest’opera pensata per i bambini audiolesi, una problematica particolarmente diffusa in questa zona per motivi genetici. Erano soprattutto femmine quelle che hanno accolto i presuli, incantati davanti a canti e balli ritmati alla perfezione, nonostante tutte abbiano problemi di udito e alcune di loro siano quasi completamente sorde. Ad accompagnare un percorso che è insieme di istruzione e di riabilitazione sono alcune suore Dorotee. Il racconto della superiora, italiana, è fatto di luci e ombre: «I frutti del bene che abbiamo seminato in questi anni li tocchiamo con mano: ad esempio quando organizziamo qualche ritrovo di ex alunni ne nasce una festa che non finisce mai. E ci dà grande gioia vedere ragazzi e ragazze ormai adulti inseriti nel mondo del lavoro nonostante un handicap che a volte non può essere del tutto eliminato».

Ma il conflitto che dura da quasi ottant’anni e la nuova fase di crisi iniziata dopo il 7 ottobre 2023 non possono non farsi sentire: «Avevamo oltre 200 studenti – ha spiegato ancora suor Carmela - che ora sono molto diminuiti. Le difficoltà di movimento dai territori della Cisgiordania sono diventate troppo grandi, così come troppi, per una popolazione sempre più povera, sono i 600 euro all’anno che chiediamo come retta, una cifra che peraltro non copre certo le nostre spese».

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