Famiglie e tossicodipendenza: «Le nostre esistenze sconvolte, insieme proviamo a lottare»

DROGA. Una sera con i genitori dell'associazione «Compagni di strada»: da soli non si riesce, bisogna vincere la vergogna e accettare l’aiuto.

È un’immagine, quella che abbiamo della tossicodipendenza, che troppo spesso ci fa vedere chi abusa di sostanze stupefacenti come persone sbagliate. Da allontanare. Situazioni di cui vergognarsi. Perché sì, tutti a dire che vanno aiutati, che sono fragili, ma poi ce ne laviamo le mani. Tanto a noi non ci tocca. A noi non capita. E così passano in sordina dolori e drammi che coinvolgono intere famiglie in anni di disperazione, sofferenza, dolore e violenza. Situazioni in cui a toccare il fondo non è solo il tossicodipendente, ma intere famiglie che da sole non ce la possono fare. Che hanno bisogno di farsi forza con chi condivide lo stesso problema. E anche di non provare vergogna.

Un luogo per trovarsi

A Bergamo, in via Borgo Santa Caterina, c’è un’associazione, Compagni di Strada onlus, che da circa vent’anni fornisce sostegno sia ai tossicodipendenti che alle loro famiglie. Una sorta di centro d’ascolto dove ogni martedì sera, con l’aiuto del presidente Valerio Bonacina, ci s’incontra. Ci si confronta. Ci si racconta. Incontri fatti di sguardi d’intesa. Uno dei pochi luoghi rimasti dove le emozioni sono di casa, sono autentiche e contano ancora qualcosa. Nascono amicizie. Legami forti che resistono nel tempo. «Ci si fa compagnia – dice uno dei papà presenti, reduce dalle vacanze estive con la figlia da poco uscita dalla comunità di recupero –. Se fossimo qui solo per condividere le nostre sfortune non avrebbe alcun senso. Siamo qui perché abbiamo il desiderio di essere felici. Qui ho trovato la salvezza dentro la sofferenza, la disperazione e l’annientamento. Tutti noi, infatti, di fronte al dolore dei nostri figli, sperimentiamo umiliazione e impotenza».

«Contento di quello che ho»

Sono famiglie che a tratti sembrano essersi abituate al dolore. Eppure non è così. In realtà sono famiglie che ne hanno preso coscienza e hanno deciso di lottare per il bene, nella maggior parte dei casi, dei figli. Ma anche per il loro. Per smettere di esserne travolti. Luca, (nome di fantasia, ndr) ce l’ha fatta. Ed è lì per raccontarlo. Un ragazzo giovane ed estremamente dolce che dopo 4 anni in comunità, quest’estate è rientrato in famiglia. «Ora riesco a godermi anche i momenti più semplici. Riesco ad apprezzare le piccole cose e ne sono felice. Sono contento di quello che ho e di quello che ho costruito in questi anni in comunità, anche se so che la strada è ancora lunga». Ha un lavoro ora, ma vorrebbe riprendere gli studi. Con lui c’è la mamma: «Gli anni in comunità hanno regalato a mio figlio il privilegio di riguardare i rapporti familiari con innocenza. Nel ricostruire l’equilibrio in casa lui ci sta dando una ricchezza di cui, quando tutto va bene, nemmeno te ne rendi conto. E io ora devo ringraziarlo».

«Da soli non riuscivamo a uscirne»

«Mio figlio ha iniziato il percorso in comunità a luglio – racconta un’altra mamma, il cui figlio ha iniziato ad assumere sostanze stupefacenti alla fine della terza media –. Io e mio marito ci vergognavamo e volevamo gestire il problema da soli, convinti di potercela fare, ma mese dopo mese, sono passati quattro anni. Gli amici provavano a darci consigli, ma mi davano fastidio. Non c’era bisogno che fossero loro a dirmi cosa fare. Poi è morto mio marito. Mi sono ritrovata stretta in un abbraccio inaspettato di tante persone e ho capito che ne avevo bisogno e che da sola non ce l’avrei fatta. Da quando ho lasciato entrare nella mia vita l’appoggio e l’amore degli amici, mi sono sentita meglio. Ora mio figlio è in comunità. L’ho visto contento e mi sono rasserenata».

«La luce c’è sempre»

Storie accomunate dal dolore, ma anche da tanta speranza. «Quando si vivono storie così dolorose si vede tutto buio – interviene un’altra mamma in collegamento dal Centro Italia, la cui figlia lotta contro una grave anoressia –. Io mi ripeto tutti i giorni che non esiste fondo buio. Il rischio più grande è pensare di bastare a se stessi e restare soli, magari per vergogna, ma proprio queste circostanze t’insegnano che siamo fatti per farci prendere per mano. Nel dolore, i nostri figli ci spingono a condividere la sofferenza con altre persone, a compiere un cammino insieme ad altri. In fondo cos’è questa luce? Un amico che ti dona il suo tempo, un operatore della comunità che ti chiama. La luce si presenta sempre: sta a noi riconoscerla. Le difficoltà di mia figlia mi hanno stravolto la vita. Senza la fede e il dialogo con le famiglie dell’associazione, non ce l’avrei fatta».

Imparare a lottare

Vedere del buono non sempre è così facile: «Ai primi incontri provavo fastidio a sentir parlare di positività nella sofferenza e ancora faccio fatica – conclude un’altra mamma, la cui figlia, 21 anni, soffre di autolesionismo ed è da poco entrata in comunità –. Non è che tutto questo dolore sia proprio necessario, ma ho capito in fretta che qui potevo esternare la mia sofferenza senza vergogna e senza paura di essere giudicata. Ho capito che qui mi sarei sentita sostenuta». Perché sì, Compagni di strada, è un posto che aiuta ad andare avanti tutti insieme. Ma non è un posto dove piangersi addosso, ma dove trovare le forse per iniziare a lottare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA