Gori: «Covid, dopo due anni Bergamo è più forte: il rilancio passa dall’alleanza con Brescia»

L’intervista: il sindaco Giorgio Gori ripercorre i due anni di pandemia ricordando i momenti più bui, ma anche le luci: «La città può guardare a questa vicenda con sostanziale orgoglio. Il polo con la Leonessa può moltiplicare i risultati».

L’immagine è quella della molla. La stessa che è stata utilizzate nel logo di Bergamo-Brescia Capitale italiana della cultura. Il sindaco Giorgio Gori la usa per restituire ciò che è successo alla città e all’intera provincia dopo due anni di pandemia: il Covid che comprime per tanti mesi le energie migliori e le stesse che, appena la presa si allenta, tornano a offrirsi in tutta la loro intensità. Bergamo, insomma, nonostante quello che abbiamo vissuto, è ancora forte, «temprata». E, proprio nella strada tracciata dalla recente alleanza con i cugini bresciana potrebbe ritrovare ulteriore slancio.

Sindaco Gori, qual è il primo ricordo, la prima fotografia che le torna alla mente di quei mesi ormai lontani di due anni fa?

«Forse la città vuota, quell’apnea in cui all’improvviso siamo piombati e dalla quale sembrava non si uscisse mai. Perché lo scatto dei camion militari che trasportavano le vittime del Covid è quella che è rimasta a tutti e che ha aperto gli occhi del mondo su quanto stavamo vivendo nel nostro territorio, ma già prima le vie di Bergamo deserte col silenzio rotto solo dalle sirene delle ambulanze, mentre in Comune ci ritrovavamo ogni giorno ad affrontare l’emergenza in due o tre persone presenti, resteranno ugualmente un ricordo indelebile».

Qual è invece l’immagine di quest’ultimo anno?

«Sono diverse, ma forse la più forte, che rappresenta meglio delle altre il 2021 è quella dei vaccini. Hanno rappresentato la vera svolta, la sostanziale messa in sicurezza dal virus. Così, il momento in cui mi è stato somministrato al Cus di Dalmine, mi è rimasto impresso in maniera nitida con la fila ordinata delle persone, le sedie distanziate dove aspettare dopo l’iniezione, la speranza che si respirava per i mesi a venire. Una speranza a cui però non è corrisposta una linea retta. Anzi tanti alti, ma anche tanti bassi».

Quali sono stati i bassi?

«Prima di Omicron ci sentivamo sostanzialmente già fuori dalla pandemia. Poi invece è arrivata la nuova variante che, nonostante abbia rappresentato un passo in avanti verso una convivenza meno cruenta col virus, ha insinuato in noi il timore che qualcosa del genere possa ancora accadere, che i progressi compiuti possano venire nuovamente frustrati e che si debba tornare in difesa».

E gli alti?

«Al netto della stanchezza e della voglia di metterti alle spalle il pesantissimo periodo che abbiamo vissuto, direi che è impossibile non vedere la reazione positiva che comunque il Covid ha innescato. Bergamo, in particolare, credo possa guardare a questa vicenda con sostanziale orgoglio, con la consapevolezza di aver fatto la propria parte, di essere stata comunità e di aver ritrovato le risorse per rilanciare la propria economia. Alla fine noi usciamo temprati dalla pandemia, come una molla rimasta compressa e capace poi di liberare un’energia che tuttora si percepisce. I dati sulla produzione dei giorni scorsi sono impressionanti. È un discorso che per certi versi vale per tutto il Paese, più resiliente e diligente di quanto si potesse pensare, ma che a Bergamo è ancora più evidente. Una grande voglia di ricostruire che evoca in qualche misura il sentimento con cui gli italiani hanno affrontato il dopoguerra».

Ma alla fine ne siamo usciti migliori come si auspicava all’inizio della pandemia o no?

«C’è molta retorica in questa cosa dell’uscirne migliori. Quel sentimento di coesione che si era così fortemente radicato nella fase iniziale soprattutto attraverso il volontariato si è poi frantumato nelle differenze che hanno caratterizzato i gruppi sociali successivamente. Ora ci sono categorie più protette e più tutelate ed altre più esposte alle conseguenze del Covid sul piano economico. Questo ha inevitabilmente compromesso quel sentimento di unità che avevamo vissuto inizialmente. Resta comunque il vitalismo che emerge dalle situazioni più drammatiche e che i bergamaschi hanno tradotto in un sovrappiù di operosità e nei risultati di cui dicevamo».

Quindi, come sta Bergamo dopo questi due anni?

«Secondo me sta bene. Bisogna essere consapevoli che ci troviamo dentro una cornice più grande, una dimensione Paese fatta di aiuti e investimenti senza i quali faticheremmo anche noi, ma al netto di questo, Bergamo si distingue comunque: siamo in coda alle classifiche dei contagi e in testa a quelle della produzione e dell’export. Qualcosa vorrà pur dire. Noi stessi, come amministrazione locale, stiamo vivendo una fase di forte spinta, sostenuta da risorse eccezionali ma con una capacità di tradurle in progetti e cantieri molto visibili».

C’è stato anche qualche segnale demografico di ripresa lo scorso anno.

«Sono piccoli segnali, perché se è vero che dalla pandemia usciamo più forti, è altrettanto vero che le fragilità ci sono e persistono. Nel momento in cui l’onda del Covid si sarà definitivamente ritirata resterà una società più vecchia e più frammentata, con una consistenza dei nuclei familiari minima e di conseguenza un problema di coesione notevole. Le reti sociali, garantite appunto dalle famiglie, che per secoli hanno assicurato una trama di relazioni stabili,fortemente radicate sul territorio non esistono più. Si tratta di un tema di cui dobbiamo farci carico attraverso le politiche di welfare , così come dobbiamo affrontare, sul fronte del lavoro, le fragilità legate alla precarietà diffusa e alla bassa retribuzione di tanti impieghi. Uno sforzo che dobbiamo fare tutti: dalle amministrazioni, alle agenzie formative alle università».

A proposito di rilancio: Bergamo e Brescia unite dalla sofferenza durante la pandemia, hanno ora intrapreso una strada comune. Passa da qui il rilancio?

«È una prospettiva, i due territori si stanno rendendo conto che se mettono assieme le forze sono davvero in grado di moltiplicare i risultati sia sul piano economico che sul fronte amministrativo e culturale. Ovviamente non è un processo che si realizza schioccando le dita, serve tempo, ma il risultato potrebbe essere una grande area metropolitana della Lombardia orientale incardinata su queste due città».

Un polo antagonista a Milano?

«No. Le due città assieme rappresentano un ecosistema territoriale solido, con una visibilissima identità manifatturiera, capace però di attrarre anche sul piano turistico. Un ecosistema che ha tutto l’interesse a dialogare con il capoluogo lombardo non dico alla pari ma sicuramente in maniera più equilibrata».

Veniamo agli aspetti sanitari: il suo giudizio sulla gestione regionale era stato drasticamente negativo. Com’è cambiato dopo due anni?

«Nella prima fase della pandemia erano emersi tutti i limiti del sistema sanitario lombardo con un’organizzazione territoriale fragilissima e una gestione dei dati palesemente insufficiente. Con altrettanta obiettività, va detto che la gestione della politica vaccinale invece è stata molto efficiente: la Lombardia ha lavorato bene e i cittadini lo riconoscono. Quello che serve a questo punto è capitalizzare la lezione del 2020 e farci trovare pronti a a un’eventuale e ulteriore emergenza».

La revisione della riforma della sanità introdurrà i correttivi necessari?

«Sì, ma molto più per ciò che attinge dagli investimenti nazionali che per propria capacità di investire».

Cosa manca?

«L’aspetto più visibile è la realizzazione delle Case e degli Ospedali di comunità. Il 90% delle risorse collocate su quel capitolo derivano però dal Pnrr e non da risorse regionali. Il rischio è che questi interventi strutturali non vengano accompagnati da un adeguato investimento sul contenuto. Per capirci: avremo sufficienti medici e infermieri per farli funzionare? Da questo punto di vista purtroppo scontiamo mancanze imputabili sia a livello centrale che regionale».

Nell’ultimo anno, dopo la pandemia del virus, c’è stata una pandemia delle regole. Che giudizio dà di questa gestione?

«Sicuramente molto frammentata e a tratti eccessivamente complicata, al punto che io stesso ho rinunciato a volte a spiegarla ai cittadini. Forse il settore più penalizzato è stato quello della scuola: lì si poteva fare meglio sia a livello di prevenzione che nel conteggio dei contagi».

Dal lockdown di fatto per Omicron stiamo andando verso un veloce allentamento delle regole: servirebbe più cautela?

«Sicuramente c’è una grande voglia di libertà, ma direi che la gradualità è il criterio da adottare anche in questo caso. Anche se la percezione di essere su una china discendente è netta, eviterei un drastico liberi tutti».

Sul piano umano cose le hanno lasciato questi due anni?

«Sono un po’ invecchiato, come tutti. Ma a parte questo dato anagrafico, ciò che mi lascia il Covid è proprio l’urgenza del tempo, la necessità di andare dritto al sodo, prendendo meno in considerazione la forma e le chiacchiere. Faccio più fatica a vestirmi in modo formale, per dirne una. Tendo a comunicare meno e a intervenire solo quando effettivamente ho qualcosa da dire. È un po’ come se si fosse ridisegnata la gerarchia dei valori e mi sento più portato a cercare le relazioni e gli impegni di sostanza, dando poco rilievo a ciò che gli gira attorno».

E cosa non rifarebbe?

«Bisogna tornare all’inizio, a quei giorni in cui non si aveva ancora una percezione puntuale della portata di ciò che stava accadendo e anch’io ho sottovalutato i segnali che ci arrivavano. Anche a me, come ad altri è venuto spontaneo immaginare che le conseguenze potessero essere diverse, che fosse solo una pallottola di striscio. Invece non è stato così. Avrei voluto capirlo prima».

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