
(Foto di Agazzi)
I DATI. Dai 10.580 del 2016 agli 8.730 di oggi (-19,4%). Il capoluogo però attrae ancora. Le associazioni: «Pesano la sfida con l’e-commerce, la viabilità e i costi elevati delle locazioni».
I numeri disegnano l’immagine di un’emorragia nota, quella dei negozi che lasciano il posto a saracinesche abbassate. Sul lungo periodo, il turnover delle insegne non riesce a tenere il passo dell’economia che cambia: negli ultimi nove anni, nel commercio al dettaglio la Bergamasca mostra un saldo negativo tra aperture e chiusure pari a -1.850 attività, con un calo del 19,4%. In altri termini, per dar conto del trend, è l’equivalente di una perdita media attorno ai 200 punti vendita all’anno (ma la velocità di crociera è diversificata, perché in mezzo c’è stato il Covid e un piccolo ed evanescente rimbalzo immediatamente seguente), potenzialmente una bottega ogni 12 mesi in ciascun Comune orobico, escludendo i meno popolosi.
Era il 2016 quando in tutta la provincia – stando ai dati di «Movimprese», il cruscotto di Unioncamere che monitora aperture e cessazioni – si toccavano le 10.580 imprese attive nel commercio al dettaglio: fu quello il momento di picco recente, poi da lì la parabola s’è fatta decisamente in flessione, sino alle 8.730 attività del secondo trimestre del 2025 (tutti i dati sono riferiti al 30 giugno di ciascun anno). È l’immagine di un settore in costante e profonda trasformazione, tra complessità e adattamento. Segnali più incoraggianti si osservano in città, che a fine settembre – in questo caso la fonte è Confcommercio Bergamo tramite la Camera di Commercio – contava 1.432 attività di commercio al dettaglio, di cui 234 alimentari e 1.198 non alimentari. È una calamita ancora attrattiva, Bergamo, e se ne ha conferma incrociando i dati dell’Istat: il capoluogo vale solo il 10,8% della popolazione dell’intera Bergamasca, ma vede la presenza del 16,4% delle imprese del commercio del territorio orobico.
Oscar Fusini, direttore di Confcommercio Bergamo, entra nelle fratture che oggi vive il settore: «A lungo si è parlato della contrapposizione tra città e centri commerciali. Oggi anche gli shopping center vivono una fase di fatica, la loro crescita ha rallentato e sono soprattutto le realtà storiche e più grandi a reggere. La vera sfida, ora, è tra il commercio fisico e quello online: resistono i negozi, anche piccoli, che sanno fare innovazione e vedono internet come un canale aggiuntivo, non solo concorrenziale. Bergamo, rispetto ad altre città, sta tenendo meglio».
«Ci sono macellerie, panifici e fruttivendoli che lavorano non più solo in un’ottica di vicinato, ma grazie al passaparola e al valore della qualità e acquistano clientela da fuori zona»
Certo, alcune consuetudini permangono e difficilmente mutano. È il caso della viabilità: «L’uso dell’auto è sempre più massiccio – nota Fusini – ci sono giorni e orari in cui il traffico è aumentato rispetto ad anni fa, mentre la presenza di parcheggi resta fondamentale: pagare la sosta per fare shopping, più che una questione economica, incontra una diffidenza culturale. La scelta del Pgt di favorire insediamenti di medie dimensioni in prossimità dei nodi del trasporto pubblico locale (come la futura T2, ndr), anziché altrove, è ragionevole e può portare sviluppo». Altra novità è quella dei microflussi della mobilità, ed è su questo pilastro che anche i piccoli negozi possono farsi forza: «Ci sono macellerie, panifici e fruttivendoli che lavorano non più solo in un’ottica di vicinato, ma grazie al passaparola e al valore della qualità e acquistano clientela da fuori zona perché lavorano bene».
«Commercio resiliente» è la definizione che tratteggia Filippo Caselli, direttore di Confesercenti Bergamo, a proposito dello scenario cittadino: «C’è capacità di adattarsi ai mutamenti in corso. Le attività del centro sostanzialmente reggono a livello numerico, anche grazie a un turismo che dà linfa all’economia, a un buon grado di fidelizzazione della clientela bergamasca e alla abilità imprenditoriale di chi li gestisce. Certo, negli ultimi 5-10 anni la diminuzione delle insegne c’è, ma molto meno rispetto ad altri centri urbani. Da alcuni quartieri arrivano dei segnali positivi: penso a dove c’è stata una crescita della residenzialità, come Redona, accompagnata da una bella offerta commerciale. Nella prima periferia si ha un’economia di vicinato, che si qualifica anche dal punto di vista sociale per il servizio che dà». Una «minaccia» però c’è, ed è ben chiara: «I livelli di consumi – indica Caselli –. Le famiglie italiane spendono di meno: viviamo un tempo di incertezze e dove i consumi si stanno un po’ raffreddando. Anche la propensione alla somministrazione (bar e ristoranti, ndr) ultimamente si sta sopendo: la pandemia aveva portato a una forte contrazione e poi si era innescata una grande ripresa, ma ora c’è una stabilizzazione».
Anche Nicola Viscardi, presidente del Distretto urbano del commercio, parla di «tenuta». Per chi ha una vetrina, oggi la spada di Damocle più affilata è una: gli affitti. «È un tema assolutamente critico e particolareggiato – riconosce Viscardi –. Soprattutto in centro, le unità immobiliari sono in mano a meno proprietari e i canoni di locazione sono di un certo livello. Per il piccolo negoziante alcuni costi sono insostenibili, specie con marginalità e stagionalità sempre più ridotte. È un aspetto che andrebbe risolto a livello nazionale, pensando ad alcune leve fiscali specifiche». Su scala locale, si lavora anche per l’innovazione: «Insieme al Comune e all’Università, stiamo ragionando – conclude Viscardi – su un sistema che possa permettere di avere un monitoraggio quasi in tempo reale sulle attività commerciali, con dati su aperture, chiusure e localizzazione degli spazi sfitti. Avere dei dati puntuali può aiutare nelle scelte e nelle valutazioni dei decisori ma anche degli imprenditori».
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