«Italia, il Paese che spreca i suoi giovani
Li trasforma da potenziali risorse a Neet»

Inchiesta sui giovani 2/8 . Rosina, ordinario di Demografia all’Università Cattolica di Milano: «Siamo la più grande fabbrica in Europa di ragazzi che non studiano e non lavorano. Senza investimenti sulle nuove generazioni, circolo vizioso verso il basso. Il reddito di cittadinanza aiuta poco».

È un mondo tutto da scoprire quello dei Neet, e non è semplice: lo facciamo con Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e statistica nella facoltà di Economia all’Università Cattolica di Milano, oltre che direttore del Centro di ricerca Lsa (Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico-aziendali) e autore, fra l’altro, di «Neet-Giovani che non studiano e non lavorano», edito da «Vita e Pensiero».

Lei ha scritto che siamo la più grande fabbrica di Neet in Europa: provi a descriverla.

«L’Italia presenta il più elevato valore in numero assoluto di giovani che non studiano e non lavorano in Europa: sono circa tre milioni nella fascia 15-34 anni. In termini relativi, dato del 2018, sono il 19,2% nella classe 15-24 ed è il dato peggiore nell’Unione europea dove la media è pari a 10,4%. Anche spostandoci nella fascia meno giovane la situazione non migliora. Tra i 20 e i 34 anni la percentuale di Neet è pari al 28,9% contro una media europea del 16,5%. Questo indicatore è stato adottato dall’Unione europea come quello più adatto a misurare quanto un Paese spreca i suoi giovani. Noi quindi siamo la più grande fabbrica di trasformazione di giovani da potenziale risorsa per la crescita del Paese a soggetti inattivi e a rischio di emarginazione sociale. È vero che esistono ampie differenze all’interno del territorio italiano, ma non c’è alcuna regione italiana sotto la media europea. Ad esempio la Lombardia presenta un tasso di Neet nella fascia 15-24 pari al 13,1% (quasi 3 punti percentuali sopra le media europea), ma in varie regioni del Sud il dato raggiunge valori più che doppi rispetto alla Lombardia».

A quale modello dobbiamo guardare: Germania, Paesi del Nord come Norvegia?

«Nella fascia 15-24 anni la Norvegia presenta un tasso di Neet pari a un quarto di quello italiano. La Norvegia è però poco confrontabile con il caso italiano per la dimensione del Paese e per le risorse su cui può contare derivanti dalle piattaforme petrolifere. La Germania è un caso più interessante perché si trova su valori molto vicini alla Norvegia, ma è un Paese molto più grande e complesso, inoltre ha anch’esso una carenza di giovani a causa della bassa natalità. La differenza con l’Italia sta nel fatto che la Germania ha risposto alla riduzione del numero di giovani con un forte investimento qualitativo, in termini di formazione tecnica e terziaria, di inserimento attivo nel mondo del lavoro, di ricerca e innovazione».

Uno dei deficit è la discrasia tra giovani e Sistema Italia?

«Negli ultimi decenni si è creata una profonda discrasia tra giovani e lavoro ma, ancor più in generale, tra nuove generazioni e Sistema Paese, come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo. Da un lato, quello che serve alle nuove generazioni per essere adeguatamente formate, valorizzate e dare il meglio di sé non c’è, o quasi, in Italia. Dall’altro, il Paese esprime scarsa domanda di giovani di qualità, li include poco e male nei processi produttivi. Siamo diventati una delle economie avanzate meno in grado di mettere in sintonia le capacità e le competenze delle nuove generazioni con le trasformazioni e le opportunità del mercato del lavoro e della società».

Che ruolo gioca l’inverno demografico?

«L’inverno demografico è allo stesso tempo causa e conseguenza dell’indebolimento del ruolo delle nuove generazioni. Da un lato la bassa consistenza quantitativa dei giovani riduce la loro spinta sui processi di cambiamento e crescita del Paese, tanto più se in combinazione con la fragilità nei percorsi formativi e professionali. D’altro lato le difficoltà stesse che i giovani incontrano nella transizione scuola-lavoro portano a posticipare e poi ad abbassare progressivamente non solo gli obiettivi di carriera e di reddito, ma anche i progetti di vita. Ne deriva una ulteriore riduzione delle nascite che fa pesare maggiormente i costi dell’invecchiamento della popolazione, rendendo in prospettiva sempre meno sostenibile la spesa sociale e il debito pubblico. Rischia di diventare un circolo vizioso che, a partire dallo scarso investimento sulle nuove generazioni, porta demografia ed economia ad avvitarsi verso il basso».

Nel frattempo si acuisce la contraddizione fra la centralità del capitale umano e l’abbandono scolastico precoce.

«Secondo i dati Istat, la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato precocemente gli studi è addirittura salita dal 13,8% del 2016 al 14,5% del 2018 (contro il 10,6% della media Ue-28). Tra i maschi del Mezzogiorno supera abbondantemente il 20%. Oltre ad una adeguata formazione di base è importante affacciarsi al mondo del lavoro con competenze tecniche avanzate e direttamente spendibili, allineate con le richieste attuali del sistema produttivo. Ma non basta. La formazione di competenze tecniche e specialistiche risponde soprattutto alle esigenze di oggi, ma le nuove generazioni vanno anche preparate a gestire una lunga vita attiva in un contesto di grandi trasformazioni. Le competenze specialistiche devono quindi essere continuamente aggiornate per non diventare rapidamente obsolete. Inoltre, molte ricerche mostrano come il lavoro tenda a spostarsi da mansioni routinarie (sostituibili dall’automazione) a quelle in cui il fattore umano può dare un valore aggiunto. Questo impone anche una riflessione su come combinare positivamente l’antropologia delle nuove generazioni (potenzialità e doti caratteristiche) con una formazione adatta e una inclusione efficace del loro specifico fattore umano in grado di produrre valore aggiunto nello Sviluppo 4.0».

Lei sottolinea le inefficienze del sistema produttivo, come la flessibilità al ribasso e l’inerzia sulle politiche attive.

«La carenza delle politiche attive non aiuta ad alzare al punto più alto l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il persistente basso investimento in tale direzione ha come conseguenza una cronica carenza di strumenti efficaci in grado di orientare e supportare le nuove generazioni nella ricerca di lavoro. In assenza di sistemi esperti di supporto e orientamento - in un mondo sempre più complesso e in rapido mutamento, con un mercato sempre più dinamico - i giovani rischiano di trovarsi abbandonati a sé stessi e all’aiuto delle famiglie, con alto rischio di perdersi nel percorso di transizione scuola-lavoro».

I fattori culturali sono strategici: che azione possono svolgere?

«Il fatto che la quota di Neet si sia potuta accrescere in modo così abnorme è legato anche a due specificità italiane, senza le quali non si spiegherebbe come tale condizione non sia esplosa come dramma sociale. La prima è un modello culturale che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori, la seconda è l’ampia quota di economia sommersa all’interno della quale prolifera il lavoro in nero. Molti alternano la condizione di Neet con lavoretti saltuari, annaspando nell’area grigia tra lavoro precario e non lavoro».

Lei, su questi temi, pone una questione poco dibattuta: la narrativa negativa dei mass media.

«Nei giornali si parla molto di giovani e di Neet ma spesso in modo superficiale e pieno di luoghi comuni. La stessa definizione di Neet è male interpretata, spesso viene limitata a chi non è interessato a lavorare o non cerca lavoro, mentre comprende anche chi cerca attivamente un impiego. Ha al proprio interno situazioni molto eterogenee e l’eccessiva semplificazione porta anche a non avere un ritratto adeguato del fenomeno e a non disegnare politiche efficaci per affrontarlo. Lo stesso termine Neet è poi passato dall’essere una condizione oggettiva a diventare nei mass media un giudizio soggettivo sulle persone, come una etichetta. Le persone non sono Neet, può invece capitare che si trovino nella condizione di Neet».

Apprendistato, alternanza scuola-lavoro, Garanzia giovani: a che punto siamo?

«Uno dei nodi più urgenti da sciogliere è quello dello “skill mismatch”, cioè la mancata corrispondenza tra le competenze possedute e quelle richieste dalle aziende e dal mercato. È utile il miglioramento e il potenziamento su tutto il territorio nazionale dell’offerta dei percorsi di formazione professionale secondaria e della formazione terziaria professionalizzante (gli Its). Alcune Regioni sono riuscite ad attivare percorsi dotati di credibilità e autorevolezza (con forte dialogo tra scuola e imprese), che erogano formazione e si raccordano in modo positivo con le aziende del territorio prima, durante e dopo la conclusione del percorso di ogni ragazzo. Nel Mezzogiorno, ma anche in varie aree del Nord, il sistema non è mai decollato, nonostante grandi iniezioni di fondi europei. Nel sistema italiano non trova ancora spazio una vera dualità, che permetta dopo i 16 anni di ottenere un doppio status, quello di studente e di lavoratore, dentro a un quadro definito di obiettivi formativi, di garanzie e di responsabilità».

Il Reddito di cittadinanza come si pone in questo contesto?

«Il Reddito di cittadinanza aiuta poco, può essere anzi controproducente, se inteso solo come misura passiva di assistenza a chi non ha un lavoro. Riduce la condizione di Neet solo se incentiva la possibilità dei giovani di diventare autonomi dalla famiglia di origine e li sostiene nella fase di ricerca del lavoro. Questa funzione, che combina sostegno al reddito e politiche attive, attualmente risulta ancora molta carente nel sistema italiano».

Bisogna giocare all’attacco e lei indica quattro piste.

«L’alta percentuale di Neet e di giovani che decidono di cercare migliori opportunità all’estero indica che i giovani italiani sono schiacciati in difesa, rischiando di diventare perdenti anziché protagonisti del mondo del lavoro che cambia. Per aiutarli a spostarsi in attacco è necessario investire bene sulla loro formazione, con una combinazione di cultura, tecnologia e creatività. Vanno poi aiutati a orientare bene le proprie scelte, in funzione delle proprie predisposizioni, della propria preparazione e di quello che il mercato offre. Serve poi che l’impegno nella formazione e nel lavoro sia riconosciuto e valorizzato, in modo che il capitale umano diventi leva per il rilancio competitivo del Paese. Infine, bisogna rafforzare le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia, in modo che progetti professionali e di vita possano sostenersi e arricchirsi a vicenda. Sono questi i quattro assi da rafforzare per non lasciare che i giovani si adattino al ribasso a quello che oggi l’Italia offre, consentendo invece al Paese di riallinearsi al meglio di quanto le nuove generazioni possono dare».

Qui la prima puntata dell’inchiesta sui Neet: https://www.ecodibergamo.it/stories/premium/Cronaca/inchiesta-giovani-18-sono-davvero-bamboccioni-ridiamo-loro-il-futuro-e-lo-sap_1340690_11/

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