«La montagna si prepari: tanti pronti a dire addio alle città»

L’intervista. A «leggere» il fenomeno è Dario Furlanetto, per decenni direttore del Parco del Ticino e poi dell’Adamello. «Tutto sta cambiando».

Alle persone che la abitano e la vivono, magari da sempre oppure soltanto da poco tempo per scappare alla claustrofobia da lockdown (e da città), la montagna grazie alle sue prerogative ambientali, storiche e culturali mette a disposizione alcune risorse in grado di rendere le comunità alpine davvero «resilienti» di fronte ai cambiamenti in atto, in primis quelli climatici, che determinano l’evoluzione dei modelli di convivenza umana politica, economica e sociale. Partendo da tale consapevolezza, i montanari possono intraprendere percorsi di sviluppo e di integrazione con chi, dalle città, vorrebbe salire di quota per trovare una dimensione lavorativa e personale nuova oppure per soggiornare in occasione di vacanze più o meno lunghe.

«Ma per riuscirci bisogna avere il coraggio e l’audacia di rovesciare i tavoli su cui si è ragionato fino ad oggi, in modo da sognare e progettare un futuro nuovo; un istante dopo, mettersi al lavoro e dedicare a tali idee tutte le proprie energie». Ne è convinto Dario Furlanetto, biologo, docente di materie scientifiche, esperto in tutela e gestione delle risorse naturali, direttore per 24 anni del Parco del Ticino e per otto anni del Parco dell’Adamello. Nato e cresciuto in Svizzera da papà friulano e mamma di Endine Gaiano, ora si è stabilito in Val Cavallina da dove si mette spesso in viaggio per frequentare, da visitatore o da studioso, l’intera regione alpina.

Dopo la prima ondata del Covid, quando non si trovava più neanche una “casa-con-giardino”, la montagna continua ad essere davvero attrattiva?

«Le vallate alpine sono molto diverse fra loro: alcune località, grazie a una tradizione turistica avviata grosso modo cento anni fa, hanno oggi una grande capacità di essere aperte e accoglienti nei confronti di turisti e visitatori. Altre invece non sono preparate, e non lo saranno se non in un futuro lontano. Da subito però dobbiamo prepararci a saper cogliere le necessità di chi è pronto ad abbandonare i grandi agglomerati urbani e non vede l’ora di cambiare aria, cambiare casa, cambiare vita».

È una tendenza reale?

«Non ci sono dati statistici precisi, ma il fenomeno è rilevante. Abbiamo visto che nel 2020 famiglie di giovani entravano per la prima volta dentro a delle seconde case comprate dai loro nonni quaranta anni prima. Per un lungo periodo non è stato possibile andare alla Bahamas o alle Seychelles, e forzatamente in tanti hanno scoperto che a poche decine di chilometri da Bergamo, Brescia e Milano si può abitare e lavorare meglio che rinchiusi in un appartamento di città».

Il poeta Franco Arminio è convinto che il futuro sia nei borghi, purché raggiunti da scuola, trasporti, e sanità.

«Concordo in pieno. Per quanto riguarda la scuola, voglio essere netto: deve restare aperta ad ogni costo. Un paese di montagna che ne permette la chiusura, una comunità che non fa quadrato per difenderla, è avviata al suicidio. Se io fossi il sindaco a cui viene comunicato che le elementari o le medie verranno chiuse per ragioni economiche o organizzative, sarei pronto a gesti estremi pur di tenerle aperte. La scuola è il primo segnale dato alle famiglie da parte di quelle istituzioni che davvero credono a un futuro possibile. Per quanto riguarda i trasporti, il mio impegno ieri in valle Camonica per la creazione della ciclovia del fiume Oglio, oggi la collaborazione con gli enti bergamaschi coinvolti nel progetto della “Ciclabile Monaco Milano”, domani per l’entrata in servizio dei primi treni a idrogeno d’Italia lungo la linea Brescia Iseo Edolo, dimostra che i sistemi di mobilità complementari all’auto privata innescano occasioni di sviluppo per la montagna».

E per quanto riguarda la sanità?

«Il Pnrr ha destinato un miliardo di euro alla telemedicina, una autentica follia per le nostre aree, dove già è saltato il delicatissimo rapporto personale fra paziente e medico. L’avvento del nuovo sistema di assistenza genererà disparità più gravi di quelle già esistenti: i poveri, gli anziani e gli svantaggiati saranno ulteriormente emarginati. Ma davvero qualcuno non capisce che non si può chiedere a un ottantenne di visionare il proprio fascicolo elettronico tramite Spid? Meglio sarebbe, partendo dalle esperienze positive viste durante il Covid, organizzare la consegna a domicilio dei farmaci, portare in ogni paese una volta a settimana un laboratorio mobile per le analisi del sangue, per misurare la pressione, per ri-portare il medico vicino ai malati».

Anche così si sconfigge la paura della pandemia?

«Come la montagna ha affrontato il Covid ha segnato un punto di non ritorno dimostrando che dove la densità è minore, dove l’ambiente naturale copre la maggior parte della superficie di un territorio, dove i numeri dei residenti sono contenuti, la malattia è stata affrontata e superata con meno paura, meno angoscia, meno terrore che altrove. I sindaci dei paesi di mille abitanti sono stati abbandonati a se stessi, ma hanno saputo governare l’emergenza sanitaria proprio perché i casi erano limitati. Al contrario l’urbanesimo spinto, che nel mondo ha favorito la nascita di città con oltre venti milioni di abitanti e che nella nostra Pianura Padana ha generato un unico conglomerato che parte da Torino e arriva a Venezia, si è rivelato debole di fronte alle pandemie. Uso il plurale non a caso: Sars-CoV-2 credo che non sia l’ultima, ma la prima, perché i cambiamenti climatici che stiamo vivendo oggi e l’eccesso di popolazione concentrata in pochi luoghi favoriranno, è la biologia che ce lo dice, l’insorgere di malattie facilmente trasmissibili».

Eppure vivere in montagna continua ad essere molto più faticoso che in città. Come se ne esce?

«Bisogna ricorrere al termine talmente abusato da essere diventato parte del Piano nazionale di rinascita e di resilienza. Rispetto alle città, la montagna è più resiliente nel senso etimologico del termine, cioè è in grado di ricorrere alle proprie risorse per affrontare le difficoltà e sconfiggerle».

E quali sono queste risorse?

«Quelle che vengono date per scontate: boschi, orti e pascoli; selvicoltura, agricoltura e allevamento. Qualche economista sorride pensando alle cifre messe in circolo da chi coltiva patate per la propria famiglia e per venderne qualche cassetta, ma finge di non ricordare che il micro credito è arrivato al premio Nobel, per la pace tra l’altro… Il ragionamento è complesso ma dimostra che in montagna tutto si tiene. Partiamo dalla componente forestale, che oggi è in grande pericolo: la tempesta Vaia è stato il primo grande segnale di allarme, i suoi effetti sono evidenti ancora oggi; il secondo segnale dato dai cambiamenti climatici sono gli incendi favoriti dalla siccità; a ciò si aggiunge il bostrico, che sta distruggendo ancora più di quel che ha fatto Vaia. Senza dimenticare tutto il tema della prevenzione del dissesto idrogeologico, intervenire e mettere in sicurezza il patrimonio forestale vuol dire generare nuovo lavoro: è spaventoso che i nostri politici non siano stati in grado di avviare, nelle nostre valli, la produzioni di pellet, che oggi farebbe tanto comodo a molti…».

Orti e agricoltura invece?

«Rappresentano il secondo elemento di resilienza della montagna. Presto o tardi si porrà un tema di approvvigionamento alimentare per chi vive in città: se le catene commerciali si interrompono, vediamo le tensioni sui cereali innescate dalla guerra in Ucraina, se i prezzi diventano insostenibili, qualcuno in città avrà problemi a comprarsi il cibo; in montagna invece ogni famiglia ha un pezzo di terra da lavorare. Fortunatamente non siamo a questo punto e l’agricoltura che può tranquillamente guardare oltre l’auto-sussistenza e diventare un elemento di richiamo turistico: oggi tutti i viaggiatori vogliono consumare prodotti a chilometro zero».

C’è il terzo elemento: pascoli e allevamento.

«Allevare animali in montagna è più difficile e più faticoso che in pianura: i giovani che oggi iniziano a fare i pastori o gli allevatori non diventeranno ricchi come certi imprenditori agricoli di pianura, ma saranno artefici di un’economia a misura d’uomo, dignitosa e capace di generare ulteriore valore all’ambiente in cui operano. Tutto si tiene, quando si sale di quota: il turismo sta in piedi se può appoggiarsi su una solida agricoltura; l’agricoltura funziona se può contare su una rete commerciale di prossimità e se c’è un sistema forestale e ambientale messo nelle condizioni di reggere l’urto dei cambiamenti climatici».

È arrivata l’ora di superare la visione di un montanaro rimasto indietro rispetto alla modernità?

«I montanari erano “avanti” fino a quando hanno potuto autogestire, con modalità cooperative, i loro boschi e e i loro pascoli che, lo ribadisco, rappresentano i loro patrimoni più importanti. Ma voi lo sapete che nei secoli scorsi, quando c’erano le vicinie, quelle particolari forme di organizzazione politica e amministrativa locale, l’analfabetismo era molto più diffuso in città che in montagna? La cooperazione era connaturata a queste realtà perché era necessaria per affrontare un ambiente ostico e inospitale, ma che dava a tutti le risorse per vivere. Poi, da Napoleone fino alla fine della seconda guerra mondiale, questo patrimonio culturale, politico e sociale, è andato disperso. Dal secondo dopoguerra, hanno assunto un ruolo fondamentale le comunità montane, che oggi dovrebbero recuperare la capacità di ragionare in termini di visioni generali e dotarsi di strutture amministrative e gestionali in grado di gestire i grandi contributi comunitari. Purtroppo, oggi la montagna ne è completamente priva. Tuttavia la cooperazione deve tornare a essere la stella polare delle nostre vallate: solo mettendo insieme ogni singola risorsa potremo tornare ad essere alternativi (competitivi non mi piace) al Trentino o alla Franciacorta, giusto per citare due territori a noi vicini e ritenuti più fortunati».

Per chiudere: in un mondo interconesso e in cui avanza il metaverso, si può ancora vivere con la terra e con forme di aggregazione sociali contenute e limitate?

«Di metaverso non si campa, o meglio: il metaverso farà la fortuna di pochi. Sempre i soliti, tra l’altro. I criptogatti, il primo esperimento in cui è stata applicata la tecnologia Nft, sono arrivati a costare milioni di dollari. Ma è solo l’ennesima speculazione che concentra nelle mani di pochissime persone la ricchezza diffusa. Al contrario, l’economia basata sulla cooperazione, la relazione che ti porta a regalare un cespo di insalata in cambio di un pugno di uova, comporta un lavoro che rende la montagna resiliente ai cambiamenti climatici e che dà valore ai beni già disponibili, senza bisogno di meta crearli».

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