L’invito del Cardinale Pizzaballa: «È ora di tornare in Terra Santa, il pellegrinaggio è sicuro»

L’INTERVISTA. Prima la pandemia, poi la guerra, i luoghi sacri sono ancora in gran parte vuoti e la comunità locale ne soffre. Il Patriarca di Gerusalemme: «Tanta solidarietà, ma adesso ci serve vicinanza concreta».

Gerusalemme

Dove un tempo c’erano migliaia di pellegrini festanti, provenienti da ogni angolo del mondo, oggi regna il silenzio. Nelle strade della città vecchia di Gerusalemme forestieri e turisti si contano sulle dita di una mano. Il Santo Sepolcro, il Getsemani e i principali luoghi sacri per i cristiani sono ancora in gran parte vuoti e lo stesso succede a Betlemme, con la gente del posto che guarda sconsolata verso la basilica della Natività e la piazza della Mangiatoia, dove da tempo non si vede quasi più nessun pellegrino. Ancora oggi, nonostante il cessate il fuoco, molti negozi, ristoranti e pensioni hanno le porte serrate, ormai da due anni, e le comunità locali, da sempre votate all’accoglienza dei fedeli, lamentano grandi difficoltà economiche innescate dalla guerra, tra isolamento, disoccupazione, caro-vita e, per molti, anche la necessità di trasferirsi altrove. Ma i luoghi di Gesù, tradizionalmente meta dei pellegrinaggi, sono lontani dalle aree più sensibili. E, come riflette il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, bergamasco di Castel Liteggio, frazione di Cologno al Serio, «il pellegrinaggio è sicuro ed è tempo di venire in Terra Santa per esprimere vicinanza a questa Chiesa».

Patriarca, per le strade di Gerusalemme e Betlemme colpisce l’assenza di pellegrini. Quale è la situazione della comunità cristiana?

«Fino a qualche settimana fa non c’era proprio nessuno, ora sta iniziando ad arrivare qualcuno. Noi veniamo da anni complicatissimi, segnati prima dal Covid e poi dalla guerra. Le difficoltà non finiranno così presto. E in questo contesto la presenza dei pellegrini porta un respiro, altrimenti abbiamo solo il conflitto con cui avere a che fare. Mi sento di dire che è tempo di tornare in Terra Santa. Siamo in una nuova fase di questo conflitto, il cessate il fuoco segna comunque un passaggio. Non sappiamo come sarà il futuro ma il pellegrinaggio è sicuro ed è tempo di tornare e riconnettersi con la Chiesa Madre, esprimendo prossimità e vicinanza. Abbiamo avuto tanta solidarietà in questi anni, anche da Bergamo. Adesso è giunto il tempo per un altro tipo di solidarietà, più concreto e prossimo, anche fisicamente. Del resto, come bergamaschi siamo molto concreti: è meglio aiutare i cristiani qui dandogli dignità, nel senso che vivano del loro lavoro e non di assistenza».

La comunità cristiana di Terra Santa come sta vivendo il cammino dell’Avvento verso il Natale?

«Quest’anno, dopo due anni di sospensione, abbiamo deciso tutti insieme, d’accordo anche con le autorità civili, di vivere un Natale normale e non segnato da lutti. Questo non perché non ci siano i lutti, ma perché è importante portare anche un po’ lo spirito di vita dentro le nostre comunità, a tutti livelli, pastorale, liturgico e civile. Per cui anche l’Avvento in questo senso viene vissuto come attesa. Attesa del Natale, attesa di sviluppi di tutti i generi ed attesa dentro la comunità di riprendere e ricominciare a programmare la vita, senza permettere che il conflitto determini tutte le nostre scelte. Il ritorno delle luci per le celebrazioni a Betlemme vuole lanciare un messaggio: ci siamo, siamo vivi e abbiamo deciso di vivere. Celebrare in questo stile è anche un segnale per la comunità, un invito a riaprire e ripartire. Ancora oggi sono tante le chiusure, aprire ha dei costi e lo si fa solo se ci sono prospettive».

Come è cambiata la «geografia» dei pellegrini?

«Sta cambiando da molto tempo, anche prima della guerra. L’Asia e anche l’Africa sono in grande crescita. Al primo posto, quanto a nazione di provenienza dei pellegrini, restano gli Stati Uniti, seguiti da tutto il continente Europa, inteso come un’unica nazione. Ma è l’Asia quella che sta crescendo sempre di più: l’India, le Filippine, la Corea ed anche l’Indonesia».

In questo scenario, come giudica l’attuale piano di pace?

«Ci sono tantissime lacune ed è molto vago su alcuni aspetti, ma è l’unico che c’è e bisogna proseguire su questa strada. L’ottimo è nemico del bene, dunque dobbiamo andare avanti con questo piano e migliorarlo là dove è possibile. A Gaza non c’è niente, la situazione resta disastrosa e catastrofica dal punto di vista umanitario. C’è bisogno di andare avanti col piano per poter ripensare ad una costruzione reale».

In vista del Natale, che messaggio si sente di mandare ai cristiani di Terra Santa ed in particolare a quelli che hanno sofferto di più, specialmente a Gaza?

«In realtà credo che siamo noi a dover imparare da loro, per la forza di vita, il desiderio di mettersi in gioco e la voglia di ricominciare, che è anche frutto della stanchezza. Il loro è un segnale importante in un contesto che resta molto drammatico, soprattutto a Gaza».

«Dopo il 7 ottobre e la guerra di Gaza il dialogo tra religioni è più complicato, serve ripartire»

Negli ultimi mesi, la questione palestinese ha suscitato una grande sensibilità in Occidente, Italia e Bergamo comprese, soprattutto tra i giovani, con grandi manifestazioni di piazza. Che messaggio si sente di mandare a queste persone?

«Noi siamo già da tempo, ahimè, molto divisi. Abbiamo bisogno di essere aiutati a superare le polarizzazioni. L’attenzione mediatica e dei giovani sono molto buone e positive. È un segno anche di una reazione che manifesta che certi valori fanno parte del nostro patrimonio genetico: la dignità delle persone, la vita, la giustizia. Queste manifestazioni sono molto positive, al di là degli estremismi violenti. Però abbiamo bisogno di essere aiutati a guardare oltre, a non restare dentro le nostre polarizzazioni, perché il nostro futuro è fare i conti l’uno con l’altro e non l’uno contro l’altro».

In tal senso, assume sempre più importanza il dialogo interreligioso...

«Dopo il 7 ottobre 2023 e dopo la guerra di Gaza, ci sono maggiori difficoltà al dialogo. Ma bisogna riprendere. Ovviamente non possiamo ripartire come se nulla fosse. Sono convinto che si dovrà attendere ancora del tempo per lasciare calare un po’ le emozioni e poi riprendere in maniera nuova. Credo che dopo quello che è accaduto ci sia un aspetto positivo, se si può dire così, ovvero che non possiamo più permetterci di parlare tanto per parlare: i nostri incontri dovranno essere veri».

Il legame con le sue radici è forte e alcune settimane fa ha accolto in Terra Santa il Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, nell’ambito del pellegrinaggio dei Vescovi lombardi: sente la vicinanza e l’affetto dei bergamaschi?

«Sì, davvero molto. Mi giungono numerose richieste da parrocchie, comunità, associazioni e movimenti. C’è una vicinanza reale, come c’è sempre stata, dalla chiesa, dalle parrocchie ed anche dai Comuni. Ne sono grato. Ora è tempo di una vicinanza di prossimità, anche da parte dei pellegrini bergamaschi. Li aspettiamo in Terra Santa».

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