Valverde, il pm ricorre in appello: «Fu omicidio, ergastolo»

Bergamo In primo grado Locatelli era stato condannato a 18 anni per la morte della convivente dopo i maltrattamenti. L’accusa: «Ecco perché fu un omicidio volontario».

Il pm Paolo Mandurino ha presentato appello confutando la tesi della Corte d’assise di Bergamo: quello commesso da Cristian Locatelli ai danni della convivente Viviana Caglioni, per il sostituto procuratore, fu un omicidio volontario pluriaggravato (con dolo eventuale) e non una morte in conseguenza dei maltrattamenti, come invece stabilito a ottobre dai giudici di primo grado. Nella sua istanza alla Corte d’appello il pm torna a ripercorrere le tesi argomentate durante la requisitoria, al termine della quale aveva chiesto la condanna all’ergastolo (la Corte d’assise ha inflitto 18 anni dopo aver derubricato il reato). Locatelli, 43 anni, di Terno d’Isola, tuttora in carcere, è stato riconosciuto colpevole della morte della 33enne con cui conviveva in via Maironi da Ponte, a Valverde.

L’aggressione durante il lockdown

L’aggressione all’interno dell’abitazione la notte fra il 30 e il 31 marzo 2020, pieno lockdown: la giovane morì in ospedale il 6 aprile. Movente: la gelosia di Locatelli. Viviana e il convivente litigarono: lei era ubriaca (1.97 g/l il suo tasso alcolemico) e, colpita dall’imputato, cadde riportando lesioni al capo rivelatesi fatali. La Corte d’assise (presidente Giovanni Petillo, a latere Alice Ruggeri) sostiene che senza quella caduta, schiaffi e pugni di Locatelli non avrebbero determinato neppure il ricovero al pronto soccorso.

La Corte sostiene che senza la caduta, gli schiaffi e i pugni di Locatelli non avrebbero determinato neppure il ricovero al pronto soccorso

Mandurino, nel suo appello, elenca invece i motivi per cui ci si troverebbe di fronte a un gesto volontario. Innanzitutto la durata dell’aggressione, «straordinaria, in quanto protrattasi per ben mezz’ora». Il pm lo calcola sulla base della testimonianza dello zio della vittima, Gianpietro Roncoli. La Corte ha sostenuto che il mancato intervento dello zio a difesa della nipote è la prova che la virulenza dell’aggressione non era tale da destare allarme. Mandurino obietta invece che lo zio non intervenì perché impaurito dalle minacce di morte rivoltegli da Locatelli. Inoltre, sempre lo zio ha raccontato che calci, sberle e pugni avevano interessato anche le zone vitali. Il pm cita anche la testimonianza di un soccorritore del 118 che in aula aveva riferito di lividi sul volto di Viviana e con la centrale parlava di trauma facciale.

Mandurino, nel suo appello, elenca i motivi per cui ci si troverebbe di fronte a un gesto volontario. Innanzitutto la durata dell’aggressione, «straordinaria, in quanto protrattasi per ben mezz’ora»

Per il pm lei stava scappando e lui la colpì da dietro «con un pugno»

Per Mandurino, lei stava scappando e lui la colpì da dietro «con un pugno» (stando alla testimonianza dello zio che udì un tonfo), accettando il rischio che cadesse perché conscio che Viviana aveva in corpo molto alcol, sostanza che influisce sull’equilibrio. Poi c’è una frase pronunciata quando lei è a terra e respira a fatica - «È morta è morta», dice l’imputato allo zio di Viviana -, che per il pm attesta che «il decesso della donna, lungi dal costituire una conseguenza non voluta, era invece evento che l’imputato si è ben rappresentato nella propria psiche». Inoltre, l’imputato non ha mai prestato soccorso alla 33enne e nella telefonata al 118 avrebbe cercato di minimizzare sulla gravità delle condizioni. Sulla gelosia il pm definisce «sorprendente» la motivazione dei giudici. Per i quali «il senso di possesso dell’imputato nei confronti della persona offesa è inconciliabile con la volontà di uccidere». Mandurino scrive che «significa, di fatto, affermare che mai un femminicidio potrebbe essere sorretto dal movente della gelosia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA