La lezione di Salbitani: «Il fotografo è colui che sa trasformare il casuale in fatale»

DOMENICHE ORE 10. Alla Biblioteca Mai, Corrado Benigni ha presentato il progetto - mostra al monastero di Astino e libro - «Echi di strade perdute». «La fotografia insegna ad essere pazienti, ad aspettare il piccolo prodigio che sta nell’imprevisto»

Molto di più, e di diverso, rispetto alla rituale presentazione di un libro. Il 26 ottobre, alla biblioteca Mai, l’incontro con il fotografo Roberto Salbitani è stato una testimonianza, un racconto, una lezione su ragioni, significati e contenuti di una scelta professionale-esistenziale, di un’adesione ad un mezzo espressivo cui si resta fedeli una vita.

«Entrare nel mondo»

L’iniziativa rientra nell’alveo delle «Domeniche ore 10» della Civica, come chiarisce, introducendo, la direttrice della Mai, Cristiana Iommi. Serie di incontri dalle tipologie le più differenti, ma sempre, dal varo nel febbraio 2024, «organizzati con associazioni, scuole, università, forze culturali della città». Occasione dell’appuntamento di ieri era l’uscita del bel volume «Echi di strade perdute» (Electa, 2025, pp. 192, 152 immagini), a sua volta intrecciato con l’omonima mostra in corso al monastero di Astino, promossa dalla Fondazione Mia. Curatore della mostra e del libro, moderatore e intervistatore nell’incontro, è Corrado Benigni, che spiega come volume e mostra si fondino su quattro «serie», «progetti», lavori, cui Salbitani ha atteso per anni: «La città invasa», «capolavoro degli anni Settanta», «Viaggio in terre sospese», «Il punto di vista del topo», «Autismi». Percorsi professionali che si dispiegano lungo un arco temporale anche amplissimo. «La fotografia - racconta Salbitani - è stata il mezzo ideale per uscire da se stessi ed entrare nel mondo, per chi, come me, ha problemi di adattamento, problemi nel confrontarsi con la realtà del mondo. Vorrei rivalutare la figura, così poco apprezzata, del voyeur. Il fotografo vero è un voyeur, che entra nell’intimo, nel profondo della vita. Un voyeur che non vuole più essere un distaccato», un drop out.

Materie di elezione

«A Parigi, tanti anni fa, guardavo fuori dalla finestra dell’albergo, volevo far parte della vita che vedevo». La fotografia insegna ad «essere pazienti, ad aspettare il piccolo prodigio che sta nell’imprevisto». Si tratta di «trovare configurazioni sorprendenti perché inaspettate. Il fotografo è colui che sa trasformare il casuale in fatale. Che sa prendere ciò che uno sguardo abituato a miliardi di immagini non si aspetterebbe». Ovvio poi che abbia delle «tematiche», delle materie di elezione, che restano però aperte, in disponibilità, per anni: «Ho tenuto aperte finestre di 10 anni su un tema. In 10 anni quanti imprevisti arrivano... Tu tieni aperta una linea di credito, aspettando pazientemente per anni che un casuale agglomerato di stimoli si trasformi in un’occasione», capace di epifanie. La foto è uno dei mezzi che «creano fantasmi, situazioni fantasmatiche. Tutti noi siamo anche apparenza, un esempio di spettralità».

L’addio alla civiltà contadina

Salbitani, sottolinea Benigni, è stato a lungo «un maestro in ombra». Ha testimoniato i costi, e i cocci, del passaggio dalla civiltà contadina all’urbanizzazione più o meno selvaggia, all’avvento del sistema-metropoli, della città-aggregazione, più o meno casuale, di anonimìe. Le sue quasi ossessive serie di manichini, cartelloni pubblicitari e cartelli stradali, sale interrate e scale mobili, roulottes e carrelli della spesa, scorie, detriti del costruito, raccontano un po’ questo. E il racconto di questo passaggio, nota Benigni, lo avvicina a Pasolini.

Il «ragazzo dei fossi»

«Sto mettendo insieme le mie foto che si possono collegare a Pasolini - risponde Salbitani - Sento affinità con lui, di lui ammiro molto il coraggio delle proprie idee e posizioni esistenziali. Aveva in testa un mondo migliore, ma non è facile farlo atterrare qui». Perché «La città invasa»? «Da bambino e adolescente ricordo i fossi e i campi, poi entri in città per andare a scuola, il bambino e adolescente dei fossi viene immerso nell’ambito cittadino. La città negli anni ’70 si trasforma molto, sempre meno luogo di incontro sempre più luogo di anonimato. Da vecchia città campagnola a città dei manichini, degli allettamenti erotici. Io volevo essere cittadino ma conservare la naturalezza del ragazzo dei fossi. Volevo una vita vera, sanguigna, non ingannevole. Il ragazzo coglieva il negativo, il fotografo da questo negativo poteva trarre qualcosa di interessante».

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