Diamante abbraccia il figlio dello sconosciuto che la salvò dalle bombe

Dalmine Il rumore delle bombe, la corsa affannosa nel rifugio scavato sottoterra, una giovane donna travolta dalla calca, colta da un malore e presa in braccio da un collega. Un gesto che le ha probabilmente salvato la vita e che per il quale lei non è mai riuscita a ringraziare quello sconosciuto che, vedendola in difficoltà, non esitò a prenderla sulle sue spalle e a portarla con sé lontano dagli scoppi.

Era la mattina del 6 luglio 1944 e sullo stabilimento della Dalmine le bombe piovevano come grandine: 77 tonnellate di piombo che hanno spazzato via la vita di 276 persone, lasciando sul campo anche 800 feriti, molti dei quali rimasti invalidi.

Una settimana fa, nel giorno del 78° anniversario di quella tragedia, è comparso su Facebook il racconto di quell’episodio: a parlarne è stato Alberto Sangalli, il figlio dello sconosciuto - morto qualche anno fa - che quella mattina di quasi 80 anni fa prese tra le braccia la giovane collega, portandola in salvo. Una storia dai contorni ancora così nitidi, nella quale una donna, Marina Maestroni, ha riconosciuto la madre, Diamante Carminati, oggi 94enne. Era lei la ragazzina, allora solo sedicenne, impiegata all’ufficio lavoro della fabbrica, alla quale Francesco, il papà di Alberto Sangalli, salvò la vita.

Giovedì mattina in un bar nel centro di Bergamo, Alberto Sangalli e Diamante Carminati si sono incontrati per la prima volta, dopo un primo contatto via social. Lui le ha portato un mazzo di fiori da campo e una foto del padre, che lei non ha mai più rivisto nella grande fabbrica nonostante per 11 anni ancora, dopo quel giorno, avessero condiviso gli stessi uffici allo stabilimento della Dalmine. «Non ci eravamo mai visti prima - racconta la signora Diamante - e non avrei potuto riconoscerlo.Quella mattina stavo scrivendo a macchina, quando sentimmo gli aerei volare sulle nostre teste.Ci affacciammo alla finestra e li vedevamo brillare come stelline, poi vidi cadere la prima bomba».

Da lì la corsa verso il rifugio, la caduta sulla prima rampa di scale, il malore e il salvataggio di quell’uomo rimasto per una vita senza volto. «Poco dopo - ricorda - quel punto esatto fu colpito da una bomba e di quelle scale non rimase più nulla». Alla Dalmine lavoravano anche i due fratelli della donna: «Il primo, Italo, era stato prelevato qualche mese prima e portato in un campo di concentramento - racconta -; l’altro, Antonio, rimase ferito quella mattina e fu ricoverato in ospedale. Nei giorni successivi si continuarono a trovare morti sotto le macerie; il conto sembrava non finire mai. Li portavano in una chiesa lì vicino, nella quale però non volli mai entrare». Oggi, a distanza di tanti anni, la signora Diamante è tornata a vedere i tragici effetti delle bombe sulle case e sulle fabbriche dell’Ucraina: «Soffro tanto nel guardare quelle immagini in televisione - dice -, perché ci sono passata anche io e so bene cosa si prova».

«Non ci eravamo mai visti prima - racconta la signora Diamante - e non avrei potuto riconoscerlo»

Ma la mente torna a quella mattina del 1944: l’attacco durò mezz’ ora; quando il rumore degli aerei cessò, i sopravvissuti riemersero dai sotterranei da un’altra entrata, perché quella utilizzata per rifugiarsi era ostruita dalle macerie. Francesco Sangalli rientrò a Bergamo a piedi. «Eravamo a casa io e mia mamma, aspettando con ansia sue notizie - ricorda Alberto -; lo vedemmo apparire nel primo pomeriggio, nero di fumo e con lo sguardo stravolto. Ma vivo». Ieri dopo quasi ottant’ anni, il ricordo del papà è tornato a vivere nelle parole di quella ragazzina salvata dal suo gesto di solidarietà. «L’ho ringraziata - conclude Alberto -, perché è stata la “causa” di una delle tante storie a lieto fine di quella tragica giornata».

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