Cartelli in bergamasco in settanta paesi: «Nel tempo diventano bene comune»

Federica Guerini dell’Università di Bergamo ha «fotografato» la situazione della segnaletica in dialetto. Il fenomeno ha preso piede negli ultimi 20 anni, soprattutto in pianura e aree urbane. «Forma di riappropriazione».

Settanta su 242: sono poco meno del 30% del totale i Comuni bergamaschi che hanno posizionato sul proprio territorio segnali stradali in cui si fa uso del dialetto. Una tendenza emersa soprattutto negli ultimi due decenni, anche se qualche «pioniere» si era visto anche prima: Trescore Balneario e Dalmine si erano mossi già nel 1996 (sembrano essere stati addirittura i primi in Lombardia). Ma è con il nuovo millennio che il fenomeno ha iniziato a farsi più consistente e diffuso.

Di indagarlo in modo scientifico si è occupata in questi anni Federica Guerini, professore associato di Glottologia e Linguistica all’Università di Bergamo. Dopo un primo monitoraggio condotto nell’estate del 2011, Guerini ha aggiornato il quadro all’inizio del 2020: gli esiti saranno l’oggetto di un saggio in uscita nei prossimi mesi all’interno di un volume a cura sua e di Giuliano Bernini e Gabriele Iannaccaro, che raccoglie gli atti di un convegno del dicembre scorso.

Poche variazioni

Dall’aggiornamento emerge che nell’ultimo decennio sul nostro territorio «la situazione sostanzialmente non è cambiata», riassume Guerini. Nel dettaglio: tre Comuni – Villa d’Ogna, Ponte Nossa, Calusco d’Adda – hanno rimosso le indicazioni in dialetto, mentre altri quattro – Ponteranica, Presezzo, Gandosso e Covo – li hanno introdotti, lasciando il bilancio finale, in termini numerici, sostanzialmente invariato. Piccolo «ampliamento» a Dalmine, che prima aveva il nome del solo Comune, e in tempi più recenti ha introdotto segnali in dialetto anche per le frazioni (Maria’, Sforsàdega S. Maria, e via dicendo).

Il grosso dei cartelli, si diceva, risale però al primo decennio del nuovo secolo. E sembra avere a che fare, almeno in parte, con una legge del 1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche: «La norma – ricorda Guerini – tutelava alcune lingue di minoranza storicamente presenti sul nostro territorio nazionale, per esempio il friulano, il ladino, il sardo, mentre gli altri dialetti italo-romanzi sono stati esclusi dalla tutela. Questa sorta di “doppio binario” sembra aver suscitato una reazione».

Perché la funzione dei cartelli in dialetto non è tanto comunicativa in senso stretto («non aggiunge niente di nuovo, anzi, può risultare un elemento di difficile comprensione per chi arriva da fuori»), quanto simbolica, quasi una forma di «riappropriazione» del territorio.

Dalle nostre parti a intestarsi sul piano politico la partita è stata soprattutto la Lega (o in modo più allargato il centrodestra): in diversi casi i cartelli vennero introdotti da amministrazioni guidate dal Carroccio. Ma il fatto che poi i cambi di colore politico dei municipi non abbiano determinato la rimozione della segnaletica (anche se nel capoluogo sul tema si sono registrate schermaglie ormai ventennali, ultimo passaggio l’amministrazione Gori che ha «ridimensionato», ma non tolto, le scritte Bèrghem posate dal predecessore Tentorio) si presta a una lettura: «Introdotti “dall’alto”, dall’amministrazione comunale, questi segnali diventano però nel tempo una sorta di bene comune, di cui la comunità intera si erge a custode. Infatti spesso rimangono anche dopo che l’amministrazione che li ha introdotti è decaduta», rileva la docente.

Scendendo nel dettaglio, la maggior parte dei Comuni che sceglie di introdurre segnaletica in dialetto lo fa solo per il toponimo principale, il nome del paese (53 casi), 14 paesi aggiungono anche le frazioni, mentre soltanto due utilizzano i nomi in dialetto per le sole frazioni e non per il nome principale.

Pochi casi nelle valli

Un aspetto che salta all’occhio, osservando la mappa, è che i cartelli con la toponomastica in dialetto non sono affatto prevalenti nelle alte valli (con poche eccezioni), come ci si potrebbe aspettare, ma anzi risultano più concentrati nell’area urbana e in pianura.

«A prima vista una simile distribuzione può apparire paradossale, poiché la segnaletica in bergamasco sembra essere assente proprio nelle zone montane o comunque rurali dove si presume che il dialetto abbia conservato maggiore vitalità – osserva Guerini –. Alcuni studi, tuttavia, rivelano una correlazione tra il progressivo venire meno della trasmissione intergenerazionale di una lingua e una sua maggiore visibilità nel paesaggio linguistico locale».

Guerini nelle sue ricerche mette anche a confronto la distribuzione territoriale dei cartelli con quella dell’immigrazione, rilevando come la segnaletica in dialetto sia quasi assente dove la presenza di popolazione di origine straniera è molto bassa: «Non c’è ovviamente una relazione univoca di causa-effetto, sarebbe una semplificazione eccessiva, ma possiamo dire che anche il fatto che nel paesaggio linguistico ci siano elementi di altre lingue può favorire una maggiore esposizione del dialetto».

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