Covid, i verbali dell’inchiesta su Alzano: «Ognuno voleva fare una cosa diversa dall’altro: era un caos»

I verbali . Un’infermiera di Chirurgia racconta cosa accadde in quei giorni all’ospedale Pesenti - Fenaroli. La situazione migliorò dopo l’arrivo dei militari: «Fatto un gran lavoro».

Ernesto Ravelli, 83 anni, di Villa di Serio, la prima vittima di Covid registrata ufficialmente in Bergamasca, era da poco stato dimesso dalla Medicina dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, ma sabato 22 febbraio 2020 si ripresentò al Pronto soccorso accusando un’insufficienza respiratoria. Sarebbe dovuto finire nel reparto che lo aveva avuto in carico, ma venne dirottato in Chirurgia per un banale dettaglio. Svelato da un’infermiera dell’area chirurgica del presidio sanitario seriano ai carabinieri del Nas di Brescia il 30 aprile del 2020 in un verbale di sommarie informazioni che «L’Eco di Bergamo» ha avuto modo di consultare. «Perché in Pronto soccorso gli era stato applicato il casco C-Pap e in Medicina non vi è disponibilità di attacchi per C-Pap».

La dipendente quel sabato (come domenica 23 e lunedì 24 febbraio) è di riposo, ma si tiene informata da casa. Via telefono suggerisce a una compagna di lavoro di chiedere al medico reperibile di Medicina, il reparto cui resta affidata la cartella clinica di Ravelli, «la possibilità di effettuare un tampone, anche in considerazione dei casi di quei giorni all’ospedale di Codogno (dove il 20 febbraio era stato scoperto il paziente zero, ndr). La collega mi informava di aver già fatto tale richiesta, ma che il medico le aveva risposto che le disposizioni erano quelle di non poter effettuare tamponi fino a lunedì 24».

Così, l’infermiera insiste col suo primario, il dottor Pierpaolo Mariani, e alla fine il test verrà eseguito. Gli esiti arrivano nel primo pomeriggio di domenica 23 febbraio: Ravelli è positivo. È solo in stanza, ma viene disposto lo stesso il divieto di accesso in reparto agli estranei. I parenti presenti vengono dotati di mascherina chirurgica, calzari e camice Tnt (tessuto non tessuto), poi viene loro rilevata la temperatura. Sempre quel pomeriggio, spiega ai carabinieri la testimone, «c’è stato il trasferimento dei pazienti dell’area chirurgica presso il reparto di ortopedia, dove c’erano 7 pazienti. Alle 22,30 il signor Ravelli è stato trasferito al Papa Giovanni. Il reparto di Chirurgia è rimasto vuoto e chiuso fino alla mattina del 24, quando è stato sanificato».

Quel lunedì, per quanto consta all’infermiera, in Chirurgia «si è lavorato normalmente». Ma quando, il giorno successivo, la donna rientra in servizio, trova «la mia area chiusa». Molti interventi sono rimandati a data da destinarsi, due vengono eseguiti quel martedì, un terzo – l’ultimo – il giorno successivo; l’attività ambulatoriale chirurgica va avanti «in una stanza dell’area sanificata per qualche giorno, poi è stato disposto il fermo totale dell’attività ambulatoriale». E dal 4 marzo, ricorda la dipendente agli investigatori, «arriveranno solo pazienti Covid».

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«Il martedì 25 in cui è rientrata in servizio, era attivo un punto di pre-triage?», le chiedono i carabinieri del Nas? «Non lo so - risponde -. So solo che quando sono arrivati i militari hanno messo la tenda (nei pressi del Pronto soccorso, ndr). Al 25 febbraio l’accesso in ospedale non era però solo dal Pronto soccorso. C’erano in totale 3 accessi, e cioè anche dal laboratorio (dove transitavano pazienti ambulatoriali, parenti etc) e dall’entrata della Psichiatria. Le visite ambulatoriali erano ancora attive, sono state sospese dopo qualche giorno».

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Il percorso sporco/pulito e quello per tipologia di pazienti, mette a verbale la donna, divengono chiari solo con l’arrivo, nei giorni successivi, del personale medico dell’Esercito. Prima, invece, «tutti andavano dovunque. Non c’erano zone filtro, non c’erano accessi e uscite definiti. Ogni reparto si è gestito da sé». L’infermiera sottolinea l’apporto dei militari: «Ci hanno insegnato come vestirci e svestirci e sono state adottate tutte le procedure. Il personale infermieristico si è attenuto strettamente alle procedure. I medici ogni tanto bisognava rimproverarli, in particolare quelli che venivano da noi da altri reparti».

Una situazione piuttosto caotica in quei primi giorni, ma in Chirurgia non mancavano i Dpi (dispositivi di protezione individuale). Ai verbalizzanti la testimone assicura che «non siamo mai stati sprovvisti. All’inizio abbiamo usato le mascherine dell’emergenza antincendio, che comunque erano FFP2, e i camici Tnt. Dopo ci sono arrivati anche i camici repellenti e le altre dotazioni. Non posso dire che siamo mai rimasti senza Dpi. Di fatto noi abbiamo sempre usato mascherine ad alto valore protettivo e non quelle chirurgiche». E questo può aver fatto da scudo ai contagi tra il personale: «Nel mio reparto ci sono state solo 2 assenze su 20 infermieri, mentre tra le Oss (operatrici socio-sanitarie, ndr) si sono ammalate di Covid in 3 su 10».

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Diversa, secondo le parole della donna, la situazione per i tamponi. «I primi sono arrivati la sera del 23 febbraio nel numero di 12 e sono stati fatti ai ragazzi venuti a contatto con il mio paziente positivo (Ravelli, ndr) e penso sia stato fatto lo stesso col paziente che era positivo in Medicina. I primi giorni i tamponi erano davvero pochi e venivano utilizzati solo in caso di necessità. I ragazzi che hanno trattato il paziente positivo il giorno 22 febbraio sono stati tamponati 3 o 4 giorni dopo».

Alla fine quanti pazienti sono deceduti in Chirurgia? «Dei miei originali credo due o tre, di cui una signora di sicuro positiva al Covid e un’altra che in ospedale era negativa», dice l’infermiera. «Dal mio punto di vista abbiamo fatto un grande lavoro nella gestione apertura e chiusura di reparti - chiosa la dipendente -. Ma ho avuto una grande difficoltà con i medici, perché ognuno voleva fare una cosa diversa dall’altro e ognuno voleva dare disposizioni senza un minimo di coordinamento e senza una linea chiara e univoca. In particolare, ci sono state incomprensioni e divergenze di vedute con i medici della Medicina».

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