Inchiesta Covid. «In Pronto soccorso con tre soli tamponi»

Alzano. Le dichiarazioni ai pm dell’infermiera di turno la domenica in cui all’ospedale risultarono i primi contagiati «Mascherine? Quando arrivò un paziente sospetto». «Disinfettata solo la shock room. I macchinari li pulimmo noi».

«Né io né i miei colleghi indossavamo mascherine, ma solo guanti. E di tamponi ne avevamo solo tre». Lavoravano così, quella domenica 23 febbraio 2020, al Pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, poco prima che proprio qui emergessero i primi contagiati ufficiali in Bergamasca, il Covid entrasse tragicamente nella storia e nelle vite di una provincia destinata a diventare la Wuhan europea e la struttura sanitaria seriana precipitasse nel caos, letto all’inizio come l’origine di tutti i mali.

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La chiusura e la riapertura del Pronto soccorso, decise nel giro di poche ore nel pomeriggio di quella domenica, sembravano operazioni gravide di conseguenza penali, perché agli albori dell’inchiesta si sospettava che avessero dato la stura ai contagi. Invece, nel corso delle indagini la vicenda si è ridimensionata, anche perché si è scoperto che «in ospedale ad Alzano, quando c’è stato il primo caso, c’erano già circa cento persone infette tra pazienti e operatori sanitari, e questo dà un’idea del livello che aveva raggiunto la pandemia all’epoca», come scrive nella sua relazione il consulente della Procura, il microbiologo Andrea Crisanti. Così, ora, tra le contestazioni di questo filone è rimasta solo quella relativa all’epidemia diffusasi all’interno della struttura ospedaliera, con il suo carico di morti e malattie causate dal virus.

«In ospedale ad Alzano, quando c’è stato il primo caso, c’erano già circa cento persone infette tra pazienti e operatori sanitari, e questo dà un’idea del livello che aveva raggiunto la pandemia all’epoca»

L’incubo cominciò verso la prima mattina di quel 23 febbraio 2020, racconta agli inquirenti un’infermiera in servizio al pronto soccorso nel turno 7-14,30. La donna, nelle dichiarazioni messe a verbale da persona informata sui fatti il 5 maggio 2020 (che L’Eco di Bergamo ha avuto modo di consultare), ricorda che «verso le 9-9,30 è giunta un’ambulanza con un paziente che accusava febbre e difficoltà respiratoria importante, tanto è vero che è stato posizionato nella shock-room. In questo luogo c’era solo lui». Quella mattina in servizio con l’infermiera al Pronto soccorso ci sono un collega e un medico.

Non indossano mascherine, nonostante l’allarme Covid in Italia sia scattato da due giorni, dopo la scoperta del primo caso di positività all’ospedale di Codogno. Il paziente viene sottoposto a una serie di esami, all’esito dei quali viene trasferito nel reparto Infettivi dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. E solo allora, soprattutto dopo il responso della Tac toracica, «abbiamo tutti indossato le mascherine».

«Non è stato sanificato ogni passaggio del paziente e quindi né la radiologia né i corridoi sono stati sanificati»

Da quel momento l’allarme comincia a diffondersi anche all’interno del «Pesenti Fenaroli». Il medico in servizio al Pronto soccorso – è la ricostruzione che offre l’infermiera agli investigatori - «decise autonomamente e in via cautelativa di chiudere il Pronto soccorso; avvisò quindi il primario, la direzione sanitaria, l’utenza in sala d’attesa e chiamò anche la Soreu (Sala operativa regionale dell’emergenza urgenza sanitaria, ndr), per comunicare di non inviare pazienti sino a nuova comunicazione». Il medico optò per la chiusura del Pronto soccorso, fa mettere a verbale la testimone, perché «i luoghi dove era passato il paziente potevano essere infetti». «Il Pronto soccorso fu chiuso intorno a mezzogiorno». Una volta che l’uomo viene trasferito a Bergamo, il personale chiama la ditta di pulizie. «Io ho visto due dipendenti dell’impresa sanificare la shock-room con un apposito macchinario. Hanno sanificato solo questa sala», dichiara l’infermiera. «Ci siamo prodigati anche noi a pulire le attrezzature mediche», aggiunge. «Non è stato sanificato ogni passaggio del paziente –specifica la donna – e quindi né la radiologia né i corridoi sono stati sanificati».

Il tragitto dell’uomo, cui era stata applicata la maschera dell’ossigeno, non interessa la sala d’attesa del Pronto soccorso. E dunque, fa notare la dipendente agli inquirenti, «i familiari in attesa non sono certamente stati in contatto con il paziente sospetto Covid. È ovvio che i familiari di questo paziente sono stati in contatto con lui. I suoi familiari erano nella sala d’attesa insieme ai familiari di altri pazienti. Probabilmente sarebbe stato opportuno sanificare la sala d’attesa del Pronto soccorso».

«Avevamo solo tre tamponi: uno è stato utilizzato per il paziente sospetto Covid

La donna ricorda che il medico che era di turno con lei uscì e «disse all’utenza che il Pronto soccorso non avrebbe proseguito l’attività perché c’era un sospetto Covid». Il dottore «invitò tutti ad allontanarsi», «ma non disse altro». Però, «nessuna delle persone presenti abbandonò la sala d’attesa». L’infermiera, il collega e il medico restano in servizio anche nel turno successivo: i dipendenti montanti vengono infatti bloccati all’esterno, in attesa della decisione dei vertici. È nel primo pomeriggio, mentre sono in corso le operazioni di chiusura, che al Pronto soccorso vengono a sapere «che c’erano un positivo al Covid nel reparto di Medicina (Franco Orlandi, il camionista di Nembro, la seconda vittima in Bergamasca, ndr) e uno nel reparto di Chirurgia (Ernesto Ravelli, 83 anni, di Villa di Serio, la prima vittima, ndr). Entrambi erano ricoverati in ospedale da diversi giorni ed erano transitati tutti e due dal Pronto soccorso».

A quel punto i responsabili del personale infermieristico di Pronto soccorso, Medicina e Chirurgia cominciano a compilare elenchi del personale presente, dei pazienti e dei loro familiari. Ma, osserva la dipendente sentita in Procura, «l’utenza presente in sala d’attesa non è stata catalogata in quanto non c’erano stati contatti con il sospetto Covid. Effettivamente il nome di queste persone andava preso». La decisione di riaprire il Pronto soccorso, secondo la testimone, matura «verso le 20 circa, forse anche prima». La dipendente ne è sicura perché alle 20,46 sul suo telefonino arriva la comunicazione di un collega. Quest’ultimo, quella domenica, non era in servizio perché accusava sintomi che poi si riveleranno quelli del Covid, tanto che alle 22 verrà ricoverato proprio al Pronto soccorso.

«Era sintomatico già da diversi giorni. Prima del 23 febbraio, pur con tutti i sintomi, veniva a lavorare senza mascherina». Alle 21 il medico in servizio al Pronto soccorso «ci disse di andare a casa senza aggiungere alcuna indicazione». Smonteranno verso le 22-22,30, quando arriveranno i colleghi del turno di notte. I tamponi il 23 febbraio 2020 al Pronto soccorso, rammenta la dipendente, erano pochissimi. «Ne avevamo solo tre: uno è stato utilizzato per il paziente sospetto Covid», uno per l’infermiere ricoverato alle 22 e uno per una vice capo sala. E anche le altre misure di profilassi stentavano a essere applicate, dice l’infermiera agli investigatori: «Abbiamo riattivato i percorsi utilizzati durante l’epidemia Ebola e diviso il Pronto soccorso in due parti. Da quanto mi risulta, i percorsi dedicati sono stati effettuati nei reparti solo con l’arrivo dei militari, con la creazione di zone filtro». Il pre-triage esterno? «Quella domenica non c’era».

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