Alzano, la chiusura del Pronto soccorso sparita dall’inchiesta Covid

L’inchiesta. Nelle 35 pagine di chiusura delle indagini sullo scoppio della pandemia a Bergamo non c’è traccia del tema di cui si era più dibattuto ovvero se chiudere o tenere aperto il Ps dell’ospedale Pesenti - Fenaroli domenica 23 febbraio 2020. Leggi l’approfondimento su «L’Eco di Bergamo» di venerdì 3 marzo.

Il tema su cui più si era dibattuto – chiudere? riaprire? chi diede l’ordine? – è sparito dall’inchiesta. Il pronto soccorso dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, che quella domenica 23 febbraio 2020 fu chiuso e poi riaperto nel giro di poche ore, divenne motivo di contesa, anche feroce nel rimpallo di competenze, su giornali e in trasmissioni tv. Ma nelle 35 pagine della chiusura indagini che giovedì 2 marzo la Procura di Bergamo ha notificato ai 17 indagati (ce ne sono almeno altri 5, ma le loro posizioni sono state stralciate), non c’è traccia. Perché, indagando, il pool di pm ha scoperto che non era l’origine di tutti i contagi nella Bergamasca, ma che esistevano altri focolai e che, soprattutto, all’interno della struttura ospedaliera seriana c’era già un centinaio di infetti quando si scoprì il primo paziente positivo, come stabilisce la consulenza che il microbiologo Andrea Crisanti – da settembre anche senatore del Pd – ha compiuto per la Procura.

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Niente epidemia verso l’esterno, dunque, ma restano le contestazioni per i morti e i contagiati che si ammalarono di Covid all’interno dell’ospedale. Sono tre gli indagati per questo filone: Francesco Locati e Roberto Cosentina, rispettivamente direttore generale ed ex direttore sanitario dell’Asst Bergamo Est, da cui dipende la struttura di Alzano; e Giuseppe Marzulli, all’epoca direttore medico del Presidio 2 (che comprende gli ospedali di Alzano e Gazzaniga) e come tale responsabile della gestione delle emergenze sanitarie.

La testimonianza dell’infermiera: «Solo tre tamponi»

A ricostruire quel che accadde al Pronto Soccorso dell’ospedale di Alzano in quella domenica 23 febbraio c’è anche la testimonianza di un’infermiera in servizio nel turno 2-14.30. La donna, nelle dichiarazioni messe a verbale da persona informata sui fatti il 5 maggio 2020 (che L’Eco di Bergamo ha avuto modo di consultare), ricorda che «verso le 9-9,30 è giunta un’ambulanza con un paziente che accusava febbre e difficoltà respiratoria importante, tanto è vero che è stato posizionato nella shock-room»: di lì a poco sarebbe risultato positivo al Covid. «Né io né i miei colleghi indossavamo mascherine, ma solo guanti - ricorda l’infermiera -. E di tamponi ne avevamo solo tre».

«Contro di noi solo fango»

Tra i protagonisti in quella fase anche l’ex dirigente delle professioni socio sanitarie, Adriana Alborghetti, oggi in pensione (ed estranea all’inchiesta): «Il quadro che viene dipinto dell’ospedale di Alzano all’esito di questa indagine – è il suo sfogo – è vergognoso, ingiusto nei confronti di chi ci ha lavorato in prima linea, a combattere il virus: applicammo i protocolli come tutti gli altri ospedali».

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La mancata zona rossa a Nembro e Alzano

Per la mancata zona rossa a Nembro e ad Alzano invece figurano indagati anche l’ex premier Giuseppe Conte (gli atti a lui relativi saranno trasmessi al tribunale dei ministri) e il rieletto governatore della Lombardia Attilio Fontana. E nella stessa posizione dei due ci sono altre nove persone, tutti i membri del Comitato tecnico scientifico (Cts) dell’epoca, l’organo chiamato a decidere i provvedimenti su scala nazionale. Sono il bergamasco Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, Silvio Brusaferro, Claudio D’Amario, Mauro Dionisio, Giuseppe Ippolito, Francesco Maraglino, Giuseppe Ruocco, Andrea Urbani e Agostino Miozzo. I pm di Bergamo ipotizzano nei loro confronti una serie di omissioni e prese di posizioni che avrebbe contribuito alla diffusione del Covid.

Il botta e risposta tra il procuratore Chiappani e Fontana

E nella giornata di giovedì 2 marzo il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, si sono resi protagonisti di un botta e risposta a distanza. Secondo Fontana «l’istituzione della zona rossa spettava al governo» mentre secondo Chiappani «un decreto consentiva alla Regione di intervenire».

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