Ero in «guerra» con mio figlio
Il calcio non è sport per famiglie

Sempre sul tema incidenti in Atalanta-Juventus, in redazione è arrivata la bella email di un genitore che non parla tanto di responsabilità di una o dell'altra tifoseria, ma osserva con amarezza che il calcio non è più uno sport per famiglia sottolineando le ferite morali.

Sempre sul tema incidenti in Atalanta-Juventus, in redazione è arrivata la bella email di un genitore che non parla tanto di responsabilità di una o dell'altra tifoseria, ma osserva con amarezza che il calcio non è più uno sport per famiglia sottolineando le ferite morali. Ecco l'email.

«Non mi recavo allo stadio da diversi anni, avevo dimenticato anche le ragioni di questa lontananza, ieri sera me le sono ricordate. Ho avuto la malaugurata idea di proporre a mio figlio (13 anni) di assistere alla sua prima "vera" partita di calcio, pensando potesse essere un'esperienza entusiasmante e coinvolgente. Me ne pento amaramente».

«Siamo arrivati allo stadio molto presto, per evitare caos e resse e ci siamo tranquillamente posizionati in curva Morosini non troppo distanti dalla curva che doveva ospitare i tifosi ospiti. Già prima che arrivassero i pullman degli ultra juventini ho faticato a spiegare a mio figlio alcune cose: intanto perché alcuni padri con figli di 7-8 anni dovessero precipitosamente abbandonare la curva, rei i piccoli figli di indossare magliette dei loro idoli juventini, dopo aver ricevuto insulti e minacce da parte di alcuni ultrà (forse varrebbe la pena chiamarli folli esagitati)».

«Non mi soffermo né scandalizzo nel riferire gli epiteti e gli insulti che le opposte tifoserie si sono rivolti, con un gruppetto di esagitati che stazionava tranquillamente nello spazio a ridosso della barriera protettiva che separa il campo da gioco dagli spalti e che ha proseguito indisturbatamente per tutto il prepartita. Ma il peggio è capitato dopo».

«Non posso riferire quello che ho potuto solo intuire avvenire fuori dallo stadio sentendo i botti e vedendo le colonne di fumo, gli agenti in assetto antisommossa, con mio figlio che sempre più incredulo poneva domande a cui io cercavo di trovare risposte rassicuranti. Dicevo il peggio, parlando dell'esperienza soggettiva di trovarsi in mezzo a una guerra tra due "tifoserie" (forse varrebbe parlare di delinquenti impuniti), inermi ostaggi di una follia collettiva tollerata e contemplata».

«Sopra le nostre teste hanno iniziato a piovere prima estemporaneamente poi sempre più stabilmente oggetti contundenti (osservandone la forma, le traiettorie e il rumore nel loro contatto con il suolo si sarebbero detti per lo più pezzi di piastrella o ceramica) e petardi e fumogeni. Abbiamo passato il tempo immediatamente precedente l'inizio della partita e i primi 20 minuti di gioco a preoccuparci più della nostra incolumita fisica che di quanto avveniva sul campo di gioco, quando infine un oggetto contundente è caduto a non più di un metro da noi ho d'istinto preso la decisione di allontanarmi trascinando con me mio figlio che, pur non perdendo la calma già in precedenza, allarmato dallo scoppio di un petardo in cielo sopra la nostra testa, mi aveva esortato a questa decisione».

«In quel tempo i miei occhi avevano potuto osservare: le due frangie opposte sfidarsi, insultarsi e lanciarsi oggetti e petardi, senza che ci fossero interferenze alla loro guerra indecifrabile nei significati; padri abbracciare e consolare figli piangenti e impauriti; spettatori di certa residenza bergamasca ma incerta fede atalantina increduli e combattuti tra le ragioni del cuore e quelle del suolo».

«Mi sono chiesto, dopo aver raggiunto l'estremità opposta della curva Morosini, fuori dalla portata dei lanci di oggetti, in alto dietro le teste di tutti gli spettatori, mentre cercavo con mio figlio di trovare un po' di calma per poter decidere se assistere finalmente a un residuo di partita di calcio o se tornarcene a casa disgustati da quello che i nostri occhi avevano già accumulato in orrore e sgomento, mi son chiesto perchè non si sospendesse la partita».

«Mi sono chiesto se fosse necessario che qualcuno si immolasse, vittima innocente e inconsapevole, perché lo spettacolo si bloccasse. Poco dopo un razzo è finito nella zona dove eravamo seduti fino a pochi istanti prima, è stato mio figlio a farmelo notare, io ho solo visto che nell'immenso ammasso di corpi accalcati in uno spazio esiguo, là c'era uno squarcio di gradinata libero. Dopo poco la partita è stata in effetti sospesa. Non proseguo con la cronaca della serata perchè nulla aggiungerebbe a quanto fin qui detto».

«Mi chiedo solo se si dovesse aspettare così a lungo prima di intervenire. La riflessione che vien da fare a freddo è che fortunatamente (dai resoconti letti la mattina seguente) non pare ci siano stati feriti gravi. Ma mi accorgo che sto commettendo un errore metodologico. Se affermo che fortunatamente non è successo nulla di grave, implicitamente contemplo che quello che è avvenuto ieri sera per una partita di calcio possa rappresentare la norma».

«Che si possa andare allo stadio con i figli per assistere a uno spettacolo sportivo e ci si trovi in mezzo a una guerra e che non si sia certi di preservare la propria incolumità fisica. Ma forse la ferita più profonda non è quella fisica, la contusione e il taglio che si rimarginano e guariscono, è quella psicologica, quella morale. Quale ricordo resterà impresso nella mente di quei bambini e ragazzi che ieri sera hanno assistito a quello scempio, quali valori abbiamo trasmesso loro».

«La mia è una conclusione amara e triste: in Italia il calcio non è uno sport per famiglie, è un carrozzone dorato ed economicamente potente seppur scricchiolante, dove nulla è cambiato negli anni, dove dei folli esagitati chiamati ultras sono tollerati quando non assecondati dalle società calcistiche. Cari genitori, se volete passare un momento piacevole con i vostri figli non andate allo stadio, fate altro, ci sono bellissimi sport alternativi, meno famosi e ricchi economicamente ma con valori morali e potenzialità educative sicuramente superiori».

Luigi Morlotti

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