Giancarlo, il maratoneta del tifo
Mai fermo allo stadio per l’Atalanta

La partita vista con l’ottantenne di Sorisole diventato personaggio perché allo stadio non sta mai fermo

90 minuti su e giù davanti al parterre. «E quando l’Atalanta è in trasferta metto tre radio e giro per casa» «Cosa vuole? Non riesco a guardare la partita da fermo»

«Cosa vuole? Non riesco a guardare la partita da fermo: camminando, sfogo la tensione». A volte la passione per una squadra si misura nei passi che ti sei lasciato dietro: e sono milioni quelli consumati da Giancarlo Rondi di Sorisole, ex gestore del posteggio del Pam, 80 anni (portati benissimo) il prossimo aprile, 66 dei quali di Atalanta e Comunale. È il distinto signore che durante i 90 minuti strapazza il selciato del parterre sotto la tribuna centrale, andando avanti e indietro con regolare pendolarità e con la trepidazione di un padre fuori dalla sala parto. Lui, che quando nacque il primo figlio nel ’61 parcheggiò la moglie Lucia all’ospedale e poi filò allo stadio. «C’era la Fiorentina, abbiamo vinto 4-1, - ricorda -. Sono tornato all’ospedale in tempo, perché Roberto è nato alle 10 di sera».

Il suo tifo peripatetico fa tenerezza e suscita ammirazione allo stesso tempo: perché un uomo di 80 anni che ancora sfida le intemperie per i colori del cuore ha dell’eroico, ma intuisci che le sue maratone sono qualcosa che resiste a malapena, malinconicamente destinate a essere spazzate via dalle pay-tv e dagli ultras da sofà. «Io la televisione non riesco a guardarla, perché bisognerebbe stare fermi», sentenzia dal tavolo del ristorante «Sole 2 - Da Gennaro» di Ponteranica dove da 26 anni a questa parte consuma pranzi domenicali e vigilie.

«E sa cosa fa quando l’Atalanta gioca in trasferta?», incalza divertita la moglie, prima che Giancarlo la riaccompagni a casa in auto e raggiunga lo stadio in scooter: «Ascolta Radio Alta, ma siccome non riesce a star fermo fino a qualche tempo fa piazzava tre radio in casa: una in cucina, l’altra in taverna, la terza in giardino. Ultimamente, invece, usa gli auricolari. Se li fissa alle orecchie con lo scotch perché ha paura che gli caschino e che possa perdersi qualche gol. Mentre ascolta, spazza le foglie in giardino, pota i cespugli, pulisce. Le dico: se l’Atalanta giocasse sempre in trasferta, avrei una casa che splende. Certo, se l’Atalanta perde, al deènta malpalpét (intrattabile, ndr)».

«L’unica partita che ho visto da fermo è la prima, nel ’47, contro il Grande Torino - rammenta Giancarlo -. Avevo 13 anni ed ero aggrappato alla rete del Tennis Club, che allora stava in viale Giulio Cesare. Da là qualcosa si vedeva. Vincemmo per 1-0».

Da quel giorno ha dato sfogo alla sua ipercinesia da spalto, messa a dura prova dall’avvento delle poltroncine. «Sono sempre andato in tribuna coperta, ma all’epoca sopra era libero e si poteva camminare. Quando sono arrivate le poltroncine ho provato a seguire la partita da seduto. È durato un tempo, poi sono sceso a bordo campo».

Stargli, dietro, non è impresa da poco. Ci abbiamo provato ieri. Giancarlo macina almeno un paio di chilometri a partita, ritagliandosi poche pause. Insomma, una specie di «non competitiva», che comincia con 20’ d’anticipo sul fischio d’inizio. Nel chiassoso microcosmo compreso tra il plexiglass della barriera e l’acciaio del parterre sembrano conoscersi tutti. Giancarlo, dentro al suo trench e a un paio di scarpe comode modello Clark’s, fa tappa ai vari conciliaboli. Quello degli agit-prop lo invita, lui berlusconiano convinto, a presentarsi con la bandiera rossa («Seeee, ghé mancherès…»); il club del sigaro che staziona dietro la panchina di Colantuono lo investe invece di fumo pestilenziale e convenevoli.

Poi, quando l’arbitro dà il via, l’attenzione è catalizzata per lo più dalla palla. Giancarlo fa la spola tra la Nord e la Sud, una spalla più avanti dell’altra, il torace girato di 45° verso il campo. Deambula solitamente con le mani dietro la schiena come passeggiasse sul Sentierone, ma quando fiuta il pericolo o l’occasione cambia marcia, fiondandosi verso l’azione con l’espressione concitata di chi sta accorrendo per assistere a qualcosa di grave.

Ha imparato a decifrare la partita osservando ad altezza del campo e per chi, come il cronista che lo segue, è abituato a guardare dall’alto è uno spaesamento. «’Ndo él ol Rasghì (Moralez, ndr)?», chiede al 15’ pt a uno del gruppo sigari, col quale pare condividere un codice di soprannomi. «De l’ótra banda», gli fa questo. «Bah - soppesa Giancarlo -, mi sembra fuori dal gioco, là a sinistra. Bisogna lasàl in mès». Due minuti dopo, quasi l’avesse sentito, Maxi attraversa il campo e da destra sfiora il gol.

Giancarlo cerca di stare in linea con la palla, ma essendo impossibile anche per un atleta di serie A, preferisce stazionare nella zona d’attacco. «Non è vero - finge di risentirsi quando glielo si fa notare -. Quando c’è bisogno vado anche in difesa. Diciamo che vado dove c’è bisogno di un supporto psicologico».

Già dopo pochi minuti aveva capito che sarebbe stata dura oggi e così al 10’ pt aveva cercato di correre ai ripari. «Gà öl la scaramansìa», dice estraendo un cappello di feltro e arrotolando il giornalino dello stadio. Cabala privata, che va a mischiarsi a incitamenti sempre più spazientiti: «Dai docà», «Sóta, sóta».

L’Atalanta non ingrana, l’arbitro non convince. Al 26’ Giancarlo accorre all’altezza di un bolognese a terra dopo un fallo, passando in rassegna una serie di insulti che piovono dal parterre: «Cinemaaaa», grida quello più urbano. Due minuti dopo resta in giacca e cravatta, togliendosi l’impermeabile che affiderà in custodia agli agit-prop. «An va mia bé», mormora. Sotto il cappello gli vaga un pensiero grave, mentre continua nel suo instancabile su è giù. Passa dietro la maschera adrenalinica di Colantuono, scorre le divise fluorescenti degli steward. Poi il direttore di gara fischia la fine del primo tempo e Giancarlo s’attacca al telefonino. Come ogni domenica al Comunale, c’è da chiamare la moglie rimasta a casa a guardare Bergamo Tv. «Commentiamo la partita - dice lui -, le ho detto che non stiamo giocando bene. Lei mi ha confermato che anche alla televisione stavano dicendo la stessa cosa». E questo accade a 53 anni dalle nozze.

Giancarlo riparte prima ancora che riprenda la gara. L’impermeabile che s’è rimesso non rallenta il moto perpetuo. Dal parterre, tra l’ironico e l’impietosito, piove un incoraggiamento anche per il cronista attardato: «Dai, córega dré». L’1-0 di Brivio, Giancarlo lo accoglie, più che con gioia sfrenata, con un sospiro di sollievo e un presentimento: «Adess al vé ol bröt». Infatti, ecco il pari di Bianchi. E, accidenti, proprio mentre Giancarlo s’era assentato per bere un goccio d’acqua. Lo vedi sbucare trafelato da dietro la tribuna d’acciaio e una maschera di disdetta: «Só ’ndat vià ü moment, al sie che bisognaa sta ché». Gli ultimi minuti sono un diluvio di tensione ma, quando ormai non ci spera più nessuno, Livaja segna il 2-1. Stavolta Giancarlo esulta: «Questo sì che ci voleva», esclama con i pugni a mezz’aria.

La maratona domenicale è finita, il tifo podistico di questo ottantenne continua. In fondo, uno che ha passato la vita nell’immobilità di un parcheggio doveva prima o poi prendersi la rivincita.

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