Bergamo sta perdendo la sua identificazione
con il lavoro. È un rischio

La disoccupazione ufficiale è molto bassa, ma ci sono troppe persone inattive o con impieghi saltuari. Occorre ricreare una nuova cultura del lavoro, recuperando il senso del fare insieme

Una nuova cultura del lavoro

I dati del mercato del lavoro a Bergamo sono preoccupanti. Metà della popolazione non è nel mercato del lavoro: è vero che c’è una percentuale bassissima di disoccupazione, ma la componente demografica ha una grandissima incidenza. La quota di anziani e inattivi è oramai predominante.

Inoltre abbiamo ancora un grave divario di genere mentre non riusciamo a includere i gruppi più vulnerabili e le giovani generazioni che spesso lasciano la città per lavorare a Milano o in altri territori. Infine consideriamo che da noi le occupazioni manuali o con bassi salari sono coperte da popolazione immigrata da altri Paesi. Ancora manca la creazione di un mercato del lavoro di cura e di assistenza alla persona soprattutto agli anziani non autosufficienti. Tutto ciò impone di inquadrare il grande tema del lavoro in una prospettiva sociale, di civiltà.

Il Novecento è stata la civiltà del lavoro. Noi non sappiamo come etichettare la civiltà di oggi. Se parliamo con i giovani, che stanno vivendo il ritorno della guerra in Europa, come potremmo definire il nuovo millennio? Qualche studioso l’ha fatto, e lo definisce non con la parola lavoro, ma rischio. La nostra è la società del rischio. Un rischio dietro l’altro: la crisi finanziaria del 2008, la crisi pandemica degli anni passati, la crisi internazionale che stiamo vivendo. La prima crisi è iniziata nel 2007: pensiamo a un giovane di 20, 25, 30 anni cosa può aver respirato come clima, visione, cultura.

In tale contesto la pandemia ci ha fatto conoscere anche la trasformazione del lavoro: da un lato legata alle tecnologie, la pandemia ci ha insegnato che non è utopia anche lavorare da remoto, o alternare il lavoro tra ufficio e casa. Dall’altro lato l’emergenza ambientale, climatica: anche qui una trasformazione dei modi di lavorare, pensiamo solo a settore automobilistico, le trasformazioni in corso per andare verso una produzione di motori più compatibili con l’ambiente e che avrà forti impatti occupazionali: per cui i giovani già fan fatica a trovare lavoro oggi, ancor di più con le nuove tecnologie che cancellano posti di lavoro (sì, ne creano altri, ma molti vengono cancellati). La pandemia ha fatto esplodere il lavoro di cura, di prossimità, lavoro povero e discontinuo, fortunatamente oggi presidiato dal Terzo settore, ma che spesso rimane lavoro povero con bassi salari e poche opportunità di crescita professionale.

Quindi è corretto inquadrare la questione lavoro dentro una prospettiva demografica. Il lavoro è indubbiamente condizionato dalle dinamiche della economia, ma sempre più da dinamiche demografiche legate non al declino demografico ma anche al venir meno del ruolo sociale del lavoro. Un lavoro che è sempre stato identità sociale e anche elemento di creazione di culturale: la vita di una persona, la vita a Bergamo, da cosa viene caratterizzata, quale è il progetto di vita, quale è l’identità?

Bergamo, per tradizione, ha una fortissima identità con il lavoro. Noi siamo portati a pensare che siamo il nostro mestiere. Quindi il perdere il lavoro, l’avere poche occasioni, avere lavori saltuari e occasionali non aiutano a creare un’identità professionale, ma anche una personalità e un tessuto sociale che sappia rispondere a queste problematiche.

Si potrebbe obiettare che le fabbriche faticano a trovare lavoratori, e questo è certamente vero per la manifattura, che è un po’ il traino della nostra economia. Ma il lavoro non è solo la fabbrica, o non è solo il lavoro 4.0 da remoto. Pensiamo al tipo di sviluppo che si è avuto nell’artigianato, nel commercio: oggi se uno cerca un idraulico, un fabbro, chi ti sistema le scarpe, non lo trova. Tanti mestieri una volta importanti sono stati svalutati, perché era lavoro manuale.

Ma il lavoro non è solo la fabbrica, o non è solo il lavoro 4.0 da remoto.

Il lavoro si sviluppa in tante dimensioni, che possono essere anche lavori che una volta non erano lavori: dal lavoro creativo, che oggi è molto richiesto (spettacoli, cultura, informazione), ma anche lavori di prossimità e di cura. Oggi il lavoro di cura a Bergamo è un mercato che non esiste, nel senso che è quasi tutto in nero, o con contratti a tempo parziale, tutto “appaltato”, a popolazioni di altri paesi, e non si capisce quanto sia invece importante la cura: degli anziani, disabili, bambini. La nostra società dà l’idea di non aver colto il valore di questi tipi di professioni, come se esse non fossero lavoro, fossero qualcosa di inferiore.

Tanti mestieri una volta importanti sono stati svalutati, perché era lavoro manuale

Il lavoro cambia. Ma il lavoro è l’attività dell’uomo, azione dell’uomo, è la manifestazione dell’uomo, la creazione dell’uomo, di quello che uno ha dentro, è la relazione con gli altri, è creare comunità, territori. Senza lavoro tu non crei comunità. Certo, puoi fare dormitori, puoi mettere insieme un certo numero di persone, ma che restano invisibili l’una all’altra.

Insomma: dobbiamo ripensare un po’ il lavoro, il che significa ripensare la società. Oggi non c’è un giovane che non accetti il tirocinio o una forma di lavoro, al di là dello schema contrattuale, se non c’è la parola smartworking, cioè la garanzia che posso lavorare quando voglio e dove voglio. Dimenticando che il lavoro è relazione con gli altri, è aggregazione, comunicazione, è un progetto comune, non isolato, se no non capisci che il lavoro va oltre il salario. Oggi la persona è sempre più sola nel percorso che potrebbe aiutare a riconoscere nel lavoro la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra, “una verità che non molti conoscono” (Levi, “La chiave a stella).

L’aspetto economico – l’abbiamo visto con la crisi del 2007 – ha molto marginalizzato la centralità del lavoro. Riportare al centro il lavoro: perché il lavoro non è solo economia, produzione, ma è proprio una cultura.

Il lavoro non è qualcosa che all’improvviso si materializza. Il lavoro è un percorso, la vita è un percorso. Mentre fai certe attività, migliori, conosci persone, migliori te stesso, impari.

Bergamo ha delle aziende spettacolari, che stanno sui mercati mondiali, però solo qualche fortunato riesce subito ad andare a lavorare in Brembo; per tanti altri si deve intraprendere un percorso: lavori in un’impresa artigiana, ti perfezioni, migliori, e poi vuoi crescere, guadagnare di più, e allora passi ad un’azienda più grande.

Gli imprenditori spesso non capiscono che si deve seguire bene un tirocinante, senza la paura che poi quello, finito il tirocinio, se ne vada via, da un’altra parte, perché tu stai formando la gente di quel territorio.

Come accade in Germania. E accade ad esempio anche a Bolzano: le famiglie di lingua tedesca mandano i figli all’apprendistato; le famiglie di lingua italiana mandano i figli al liceo. In quelle di lingua tedesca c’è l’idea che tu stai investendo sul territorio, stai educando e formando persone, stai trasmettendo competenze. È questa cultura del lavoro come cultura di un territorio. E questo allora ti trattiene le persone. E questo crea quei processi di innovazione che sono di vario tipo, ma che nascono dal fatto che ci sono persone che dentro i processi produttivi sono diverse: per generazione, per provenienza, per disciplina.

Io penso che si stia un po’ perdendo questo tratto identificante, che invece era il dato caratteristico di Bergamo. Se noi oggi entriamo in un bar a Bergamo, non troviamo i nostri ragazzi che ci lavorano, troviamo gente figli di persone venute da altri paesi. Non dico che dobbiamo fare tutti i camerieri, ma un tempo questa era un’esperienza, che ti formava come persona, ti apriva. Non c’è solo il lavoro top, superpagato, e subito. Sono dei percorsi.

I giovani e il lavoro

I giovani sono il futuro di un territorio, però nella nostra società ed economia non riescono ad avere lo spazio che si meritano. Una società che sta invecchiando, che protegge chi ha già esperienze di lavoro, chi è già uscito dal mercato del lavoro (e ha robuste protezioni sociali), mentre ai giovani offre lavori sottopagati, tirocini, lunghi percorsi per entrare nel mercato del lavoro. Non si tratta solo di dare opportunità occupazionali ma anche educazione, esempio, punti di riferimenti, orientamento e aiuto nel percorso che porta alla formazione di una persona capace di esercitare senso critico e attrezzata a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio.

Una società che sta invecchiando, che protegge chi ha già esperienze di lavoro, chi è già uscito dal mercato del lavoro (e ha robuste protezioni sociali), mentre ai giovani offre lavori sottopagati, tirocini, lunghi percorsi per entrare nel mercato del lavoro.

E dall’altro lato è lo stesso sistema produttivo, economico del territorio, che lamenta una difficoltà nel trovare giovani, competenze, professionalità che possano consentire alle nostre imprese di resistere su mercati internazionali, sempre più competitivi, e di avvalersi di quelle competenze, di capacità abilitanti nell’uso di nuove tecnologie, oggi indispensabili.

Va costruita socialmente la domanda, va costruita l’offerta. Le aziende dovrebbero essere più chiare nel dire quello di cui hanno bisogno. È un compito della rappresentanza delle imprese: dovrebbe andare sistematicamente nelle scuole/università a costruire davvero i piani formativi, a fare lavoro di semina che serve per preparare giovani ai mestieri del futuro.

Va costruita socialmente la domanda, va costruita l’offerta

Qui abbiamo buone sperimentazioni, nel campo dell’alternanza, oggi strumento discusso: diamo tutte le garanzie di sicurezza, ma non buttiamo via lo strumento in sé.

Dobbiamo ripensare ai tirocini formativi. Se le aziende offrono a 500, 600 euro, è ovvio che i giovani rifiuteranno queste offerte, o comunque scapperanno alla prima occasione.

Altro canale è l’apprendistato alla tedesca. In Germania è importante, hanno un sistema duale. E i giovani in buona parte vanno a fare percorsi di apprendistato, che sono di pari dignità. Non sono corsi di serie B, rispetto a quelli teorici puri. Eppure in Lombardia – dove l’apprendistato alla tedesca è possibile – non viene utilizzato. Anche qui, è decisivo il compito della rappresentanza: prendere le buone pratiche del territorio e veicolarle.

Dal lato dell’offerta, ruolo in primis delle famiglie, c’è un punto importante da tener presente in questi ragionamenti. È finito il ‘900 industriale, e quindi è finita l’idea che lavorare sia occupare un posto, un posto dove vado otto ore, con l’orologio.

È finito il ‘900 industriale, e quindi è finita l’idea che lavorare sia occupare un posto, un posto dove vado otto ore, con l’orologio

Oggi il lavoro è sempre più professionale, più simile a lavoro autonomo che dipendente, rispetto al passato. Bisogna ricomporre il mercato del lavoro, non più spaccato tra autonomi e dipendenti.

Oggi occorre capire come costruire le professionalità. Che si basano non solo sulle competenze del mestiere, ma su competenze trasversali (soft skill), che sono il modo in cui la persona interpreta il suo lavoro. Una serie di competenze che non può insegnare la scuola, le insegna la vita. E Bergamo ha una tradizione, rispetto al Sud, di giovani che entravano al lavoro senza studi universitari che però ti insegnavano i valori, lo stare al mondo.

È una sfida di senso. E quindi una grandissima sfida educativa. Quindi se vogliamo che i giovani, i talenti, siano a disposizione dell’economia, dobbiamo capire che l’economia non è un fine in sé, ma dietro l’economia c’è un tessuto sociale, e capire se questo tessuto è in grado di rispondere ai bisogni delle persone, che poi si realizzano anche attraverso soldi, economia e lavoro, ma non tutto finisce lì. Solo le aziende che capiscono questo riescono a valorizzare e trattenere i talenti e le professionalità.

se vogliamo che i giovani, i talenti, siano a disposizione dell’economia, dobbiamo capire che l’economia non è un fine in sé, ma dietro l’economia c’è un tessuto sociale, e capire se questo tessuto è in grado di rispondere ai bisogni delle persone, che poi si realizzano anche attraverso soldi, economia e lavoro, ma non tutto finisce lì

É centrale il ruolo delle rappresentanze

Chi aiuta a costruire i mestieri del futuro, a costruire identità sociali, professionali? Quindi, il primo grande capitolo per un progetto per il futuro è il ruolo che vogliamo dare a un soggetto spesso bistrattato, ritenuto superfluo, che sono i corpi intermedi.

Se vogliamo dare sostanza reale al futuro della città, il primo grande interlocutore da ascoltare e sollecitare è la rappresentanza. Una rappresentanza che è sì in crisi (ha ereditato valori, logiche del passato, del 900 industriale) ma che è un valore da difendere in una epoca dove prevale la logica della disintermediazione: occorre qualcuno che la ricomponga attraverso nuove forme, nuove visioni.

Se vogliamo dare sostanza reale al futuro della città, il primo grande interlocutore da ascoltare e sollecitare è la rappresentanza

I corpi intermedi hanno un ruolo decisivo, perché non sono solo attività di lobby, ma sono le sedi dove si creano queste identità, dove si ascoltano le esigenze del territorio, le aziende che non trovano i giovani, come i giovani che non trovano lavoro. Mettere queste esigenze in relazione non avviene con la bacchetta magica, ma in un discorso di aggregazione.

E il nostro territorio è ricchissimo di queste iniziative volte all’integrazione dei gruppi deboli e fra questi anche la categoria dei giovani. Giovani nella dimensione di genere, ma anche di etnie, eccetera.

L’importanza di questi soggetti della rappresentanza che hanno tante iniziative che andrebbero però un po’ catalizzate, valorizzate vincendo la frammentazione tipica di questo settore.

Una rappresentanza che vuole essere moderna deve fare lavoro di semina: cioè andare, costruire i mestieri, parlando con istituzioni, con le scuole, orientando famiglie, parlando con i ragazzi. Non solo un giorno all’anno nei Career day, non solo con una convenzione tra Confindustria e Università, ma tutti i giorni: a parlare con i professori, le famiglie.

Una rappresentanza che vuole essere moderna deve fare lavoro di semina: cioè andare, costruire i mestieri, parlando con istituzioni, con le scuole, orientando famiglie, parlando con i ragazzi

Insomma: il tema grosso è una rappresentanza che butti via gli slogan del Novecento industriale e diventi protagonista: capace di parlare con artigiani, commercianti, un lavoro insieme per costruire il futuro di Bergamo che poi darà risposte ai propri associati.

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