La ricchezza a Bergamo fra ’400 e ’700: un caso scuola

STORIA & ECONOMIA. Il professor Alfani ha tracciato una storia dei ricchi in Occidente nel volume «Come dèi fra gli uomini». Nel 1400 il 10% più ricco della popolazione a Bergamo deteneva il 54% dei beni e nel 1700 si sale al 63%. Dalla metà del Cinquecento in poi c’è una riduzione della mobilità sociale.

Bergamo

Il ruolo dei ricchi nella società è tema non banale, reso ancora più attuale dalle dinamiche socioeconomiche dei giorni nostri che vedono con allargarsi continuo delle diseguaglianze. Eppure è un terreno di studio poco indagato. Lo storico dell’economia Guido Alfani, professore ordinario in Bocconi a Milano, da poco entrato nel comitato scientifico di BergamoScienza, se ne occupa da tempo e ne ha tracciato la parabola nel corso dei secoli nel corposo volume «Come dèi fra gli uomini. Una storia dei ricchi in Occidente», pubblicato in inglese e tradotto in Italia da Laterza a ottobre dell’anno scorso. Qui tocchiamo con il professor Alfani sempre il tema delle diseguaglianze nella storia calandolo nella realtà di Bergamo, città che si delinea come un caso scuola emblematico nel fenomeno della polarizzazione sociale.

Come si colloca Bergamo nella storia economica e sociale del nostro Paese? Ci sono alcuni tratti caratteristici dell’età moderna che si possono delineare?

«Bergamo è sempre stata una delle grandi città di riferimento del Nord Italia. Nell’età moderna emerge la specializzazione nell’industria del ferro, grazie anche alla disponibilità della materia prima nelle miniere della Val Brembana e dintorni. Grazie a questa peculiarità, Bergamo diventa un importante centro di produzione di armi che rifornisce il mercato dell’Italia settentrionale. Qui si approvvigiona, ad esempio anche la Spagna - siamo tra il XVI e il XVII secolo - durante la dominazione sul Ducato di Milano: l’esercito compra gli archibugi prodotti a Bergamo. Anche la Repubblica di Venezia, di cui Bergamo fa parte fin dal Quattrocento, è un ottimo mercato per le armi bergamasche: insomma, il ferro alimenta l’economia di guerra e di pace a Bergamo. Su questa base si creano le condizioni per la successiva transizione industriale che si vedrà nell’Ottocento».

Grazie a questa peculiarità, Bergamo diventa un importante centro di produzione di armi che rifornisce il mercato dell’Italia settentrionale

Bisogna aspettare la Rivoluzione industriale per vedere una diversificazione produttiva a Bergamo?

«Nell’età moderna, il ferro e l’industria delle armi non sono l’unico fattore dell’economia bergamasca. In particolare, è molto importante il settore tessile: lana prima, poi seta. Ma per vedere lo sviluppo di settori non tradizionali sì, bisogna aspettare il XIX secolo. A Bergamo l’industrializzazione è condizionata dalla presenza delle Alpi e quindi dalla possibilità di produrre energia idroelettrica e, ancora una volta, dalla disponibilità di ferro. Bergamo non occupa da subito i primi posti nell’industrializzazione: è rivolta più a Oriente che a Occidente dove si trova invece il triangolo industriale che manifesta fin dal principio maggiore dinamismo. Presto, tuttavia, anche Bergamo virerà verso un’economia industriale, anche grazie ai rapporti sempre più stretti con Milano».

Quanto hanno inciso sullo sviluppo di Bergamo collegamenti come la Via Mercatorum fra la città e le Valli Brembana e Seriana nel Medioevo e la Via Priula aperta a fine Cinquecento sotto la Serenissima per scollinare a Morbegno e quindi andare verso il Cantone dei Grigioni?

«Da sempre, le Alpi sono state uno spazio di transito: più un’opportunità che un ostacolo, per i mercanti, almeno per quelli che operavano in luoghi posizionati strategicamente, come per l’appunto Bergamo. Di questo erano ben consapevoli anche i governanti: da qui la decisione del podestà Alvise Priuli, a fine Cinquecento, di costruire una nuova strada che collegasse direttamente Bergamo alla Valtellina e, da lì, la mettesse in comunicazione coi ricchi mercati transalpini. Era una via più sicura, anche diciamo dal punto di vista geopolitico, rispetto a quelle che transitavano per lo Stato di Milano. Nei secoli successivi, la Via Priula contribuì certamente a favorire lo sviluppo commerciale e proto-industriale di Bergamo».

«Da sempre, le Alpi sono state uno spazio di transito: più un’opportunità che un ostacolo, per i mercanti, almeno per quelli che operavano in luoghi posizionati strategicamente, come per l’appunto Bergamo. Di questo erano ben consapevoli anche i governanti: da qui la decisione del podestà Alvise Priuli, a fine Cinquecento, di costruire una nuova strada che collegasse direttamente Bergamo alla Valtellina e, da lì, la mettesse in comunicazione coi ricchi mercati transalpini»

Oggi le diseguaglianze continuano a crescere ed è sempre interessante indagare il tema nel corso della storia. Bergamo come si colloca? Si è mostrato un territorio tendenzialmente equo o di grandi disparità?

«La città di Bergamo è molto interessante da studiare in riferimento alla distribuzione della ricchezza fra Quattrocento e Settecento perché abbiamo a disposizione ottimi estimi antichi; per questo con il mio gruppo di ricerca l’abbiamo subito inserita nel campione di comunità da indagare. Emerge, ad esempio, che nel periodo considerato c’è un aumento della ricchezza in mano a pochi: nel 1400 il 10% più ricco della popolazione deteneva il 54,5% della ricchezza, nel 1600 il 57% e nel 1700 il 63%. Si vede una polarizzazione significativa, che cresce costantemente nel tempo. Direi che Bergamo è un caso emblematico benché non eccezionale: non è infatti tra le città più diseguali sotto la Repubblica di Venezia, ma nemmeno tra le meno diseguali».

«La città di Bergamo è molto interessante da studiare in riferimento alla distribuzione della ricchezza fra Quattrocento e Settecento perché abbiamo a disposizione ottimi estimi antichi»

Di quale tipo di ricchezza parliamo e a cosa si deve questo aumento continuo?

«In una economica preindustriale la ricchezza è essenzialmente immobiliare, quindi terre e edifici, ed è quella che possiamo misurare grazie agli estimi. Per le élite mercantili ci sono anche i capitali investiti nei commerci. In linea generale, però, altri tipi di ricchezza sono meno importanti. L’aumento delle disparità è legato all’aumento della pressione fiscale pro capite. Dobbiamo tenere presente, infatti, che prima del XIX secolo la tassazione è tendenzialmente regressiva: la quota di reddito che se ne va in tasse è maggiore per i poveri rispetto ai ricchi. Dal 1400 aumenta la tassazione pro capite perché aumenta il costo della guerra, ma questo significa, con un sistema appunto regressivo, che aumenta il peso fiscale sui poveri e la concentrazione della ricchezza in mano a pochi di conseguenza cresce anche se l’economia è stagnante. Ricordiamoci, inoltre, che la Serenissima è una Repubblica patrizia, quindi un sistema dove le redini della politica sono saldamente nelle mani dei più ricchi, che governano avendo bene in mente i propri interessi particolari».

È possibile quantificare anche i poveri a Bergamo prima dell’Ottocento?

«Fissata una linea di povertà pari alla metà della mediana - dove per mediana s’intende chi sta esattamente nel mezzo della distribuzione - vediamo che nel 1500 sotto questa linea si colloca il 36% della popolazione della città di Bergamo; valore che resta sostanzialmente stabile anche nel 1700 con il 35% degli abitanti».

Diceva che Bergamo è emblematica ma non eccezionale: è possibile fare confronti con altre città?

«Verona era meno diseguale: al 10% più ricco della popolazione nel 1400 faceva capo il 49% della ricchezza; nel 1600 sempre il 49% e nel 1700 il 58%, dati appunto inferiori a quelli rilevati a Bergamo. Padova, invece, era più diseguale con il 67% della ricchezza concentrato in mano al 10% più ricco degli abitanti nel 1600 e il 68% nel 1700: sono rispettivamente dieci punti in più e cinque punti in più rispetto a quanto riscontrato a Bergamo negli stessi anni».

Grandi disastri come la peste impattano in modi diversi nella storia su economia e società. Cosa accade a Bergamo nel 1630? La peste influisce in qualche modo sulle diseguaglianze?

«C’è una piccola riduzione delle diseguaglianze a Padova e a Verona, a Bergamo invece la tendenza non s’inverte. Dalla metà del Cinquecento in poi c’è una riduzione della mobilità sociale: c’è una élite sempre più ricca e sempre più rigida, è difficile entrarci, mentre i poveri sono sempre più poveri. Questo conferma che Bergamo è un caso emblematico della polarizzazione sociale di quel periodo, anche se non eccezionale. La peste del 1630 uccide il 38% della popolazione di Bergamo, poco più della media del Nord Italia (35%) e meno di quanto accade in altre città vicine: il 46% a Brescia e il 50% a Milano. Con un’incidenza di morti così alta ci aspetteremmo gli stessi effetti della peste nera del Trecento con una riduzione delle diseguaglianze e un aumento della mobilità sociale, invece questo nel Seicento non succede».

«La peste del 1630 uccide il 38% della popolazione di Bergamo, poco più della media del Nord Italia (35%) e meno di quanto accade in altre città vicine: il 46% a Brescia e il 50% a Milano»

A cosa si deve questa differenza?

«La peste nera del Trecento stermina metà della popolazione; ci sono quindi molti meno lavoratori e quelli sopravvissuti possono esigere condizioni economiche migliori. Nel 1630 ci sono almeno due ragioni che evitano il ripetersi di questa dinamica. Innanzitutto, le élite economiche e politiche dalla fine del Cinquecento si attrezzano per evitare l’egualitarizzazione: con l’istituto del fedecommesso, si mantengono i grandi patrimoni indivisi; è infatti la loro frammentazione a determinare una riduzione delle diseguaglianze. Non potendo proteggere i singoli membri della famiglia da fenomeni come la peste che già dopo il Trecento si riconoscono ormai parte dell’ambiente biologico, si protegge il patrimonio. I giuristi dicevano “familia est substantia”, la famiglia è il patrimonio. La seconda ragione riguarda il contesto. Le grandi famiglie mercantili iniziano a pensare che sia difficile competere con il Nord Europa e quando con la peste del 1630 si perde una fetta consistente del mercato interno, spostano i loro investimenti dal commercio alla terra, per garantirsi il futuro. Ma la terra è la maggiore fonte di reddito nell’età pre-industriale, di conseguenza, quando i grandi mercanti cominciano a competere con gli strati più umili sul mercato della terra, comprando tutto o quasi ciò che viene posto in vendita, si riduce la mobilità sociale - e quando una società è più immobile, le diseguaglianze non si riducono. Ciò ha anche altre conseguenze: mentre nel Trecento muore la metà dei lavoratori e i superstiti riescono a guadagnare di più, nel 1630, anche se molti lavoratori muoiono, sono i datori di lavoro che spostano la loro attività e non sono costretti a pagare salari più alti. Si aggiunga che Venezia perde la guerra di Candia (1645-1669) contro l’Impero Ottomano e diventa una regione sempre più stagnante rispetto al Nord Europa e al Nord Ovest, dove inizia l’ascesa del Piemonte. La polarizzazione sociale ed economica riflette tutti questi fattori e contribuisce a rendere irreversibile il processo: in una società rigida, poco propensa all’innovazione economica, le distanze aumentano sempre di più. Per uscirne, si dovrà aspettare la Rivoluzione industriale».

Facciamo un salto temporale seguendo il filo delle grandi epidemie. Quali conseguenze ha avuto sul piano economico-sociale la Spagnola a Bergamo?

«L’influenza Spagnola del 1918-1919, così come il colera del XIX secolo, è uno dei momenti significativi per analizzare la correlazione tra mortalità e conseguenze socio-economiche e Bergamo è uno dei territori che intendiamo studiare. L’Eco di Bergamo pubblicò il bollettino giornaliero delle vittime in un periodo circoscritto, tra il 23 ottobre e il 1° novembre 1918. Ricostruire i dati sulla mortalità è il primo passo. Sulla base di altri studi, si può comunque dire che la Spagnola non ridusse le diseguaglianze e in questo è un caso simile alla recente pandemia da Covid-19, anche per il manifestarsi di “long Spanish flu” simile al long Covid nel prolungamento degli effetti della malattia. Durante la Spagnola, muoiono molte persone ma non così tante da ridurre in modo significativo l’offerta di lavoro. Si verifica invece una perdita di reddito tra gli strati più deboli della popolazione, con aumento delle diseguaglianze. Ciò che è accaduto anche con il Covid: è stato colpito più duramente chi aveva redditi meno sicuri, anche se poi l’esito finale sul piano socio-economico dipende dalle politiche messe in atto. In Italia nel 2020 è stato fatto molto per limitare i danni a carico dei più deboli; se guardiamo invece alcune zone degli Stati Uniti dove non è stato fatto nulla, povertà e diseguaglianze sono aumentate».

«Sulla base di altri studi, si può comunque dire che la Spagnola non ridusse le diseguaglianze e in questo è un caso simile alla recente pandemia da Covid-19, anche per il manifestarsi di “long Spanish flu” simile al long Covid nel prolungamento degli effetti della malattia. Durante la Spagnola, muoiono molte persone ma non così tante da ridurre in modo significativo l’offerta di lavoro. Si verifica invece una perdita di reddito tra gli strati più deboli della popolazione, con aumento delle diseguaglianze»

La cultura sociale cattolica di fine Ottocento e inizio Novecento, che a Bergamo ha trovato terreno favorevole per esprimersi, ha in qualche modo influito sul contenimento delle disparità?

«È servita a moderare l’ulteriore aumento delle diseguaglianze che sarebbe potuto derivare dalla Rivoluzione industriale e a distribuire invece in modo più ampio il dividendo dell’industrializzazione. Certamente è servita anche a gestire lo choc sociale derivato dalla transizione alle fabbriche. A livello locale le iniziative sociali dal basso hanno svolto un ruolo calmieratore. A livello nazionale, invece, la politica italiana si è mostrata in ritardo e il Ventennio fascista ha poi attuato politiche economiche che hanno avvantaggiato le élite. L’Italia in quel periodo è l’unico Stato in Europa senza una tassa di successione, a differenza, ad esempio, dell’Inghilterra di Churchill, che non era certo un comunista bensì un conservatore e diceva: «Per salvare il capitalismo, dobbiamo sbarazzarci dei ricchi oziosi» e quindi tassare i patrimoni e le eredità. In Italia solo con la Repubblica si prende una direzione diversa, con la progressività del prelievo fiscale scritta nella Costituzione».

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