Under 35, la metà ha stipendi sotto i 1.000 euro: «Non sono valorizzate le competenze»

CAPITALE UMANO. Il rapporto Istat: tre quarti dei giovani con stipendi annuali sotto la soglia minima. Del Conte (Bocconi): «Ragazzi poco formati e tante piccole imprese, quindi il lavoro vale meno».

«Me ne vado all’estero perché in Italia mi pagano poco». Quante volte abbiamo sentito questa frase lapidaria da un giovane? Troppe. Semplice percezione o triste realtà? Purtroppo i dati propendono per la seconda risposta: in Italia oltre il 43% degli under 35 guadagna meno di 1.000 euro netti al mese e il 32,7% tra i 15 e i 35 anni si colloca tra i 1.000 e i 1.500 euro. Solo un quarto dei giovani ha uno stipendio medio mensile superiore ai 2.000 euro. Sono i dati di una recente inchiesta del Consiglio Nazionale dei Giovani e confermati dal rapporto Istat 2024 presentato la scorsa settimana nel quale si sottolinea che tra il 2015 e il 2022 (quindi una

costante) i tre quarti dei giovani hanno annualità sotto la soglia minima di retribuzione. Un quadro per nulla positivo che contribuisce ad alimentare il mismatch tra aziende e nuove generazioni. Quali sono le cause e le possibili soluzioni? Ne abbiamo parlato con Maurizio del Conte, professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi, che è stato consulente giuridico del Presidente del Consiglio dei Ministri per la stesura del Jobs Act.

«Piccolo è bello» funziona poco

Prima di avere risposte, è utile capire il contesto, cioè il micro tessuto imprenditoriale nel quale per anni si è esaltato il modello «piccolo è bello». È vero, ce lo siamo detti tante volte, le Pmi - tutte insieme - rappresentano la spina dorsale del Paese ma nel piccolo - prese singolarmente - è difficile che possano generare molto valore aggiunto e quindi il nostro mercato del lavoro, seppur importante in termini quantitativi, dal punto di vista qualitativo purtroppo non è ai livelli di altri mercati europei, dove le imprese sono più strutturate, dove si fa innovazione, dove si è in grado di produrre più valore. «Confermo - sottolinea il professor Del Conte - che, alla fine, è una questione di produttività. E vi chiederete perché questo incide sui giovani. Perché nei giovani si dovrebbero cercare le competenze, ma quando non sono tanto richieste o non particolarmente elevate, come avviene nel nostro mercato del lavoro, è chiaro che poi si pagano di meno e si sfruttano». La conseguenza è un circolo vizioso, perché la formazione delle competenze è stata trascurata lasciandola sostanzialmente alle imprese, una sorta di fai da te on the job. In questo modo le imprese hanno scaricato sul giovane il costo del lavoro, quindi sulla retribuzione la formazione del giovane. E come se le difficoltà non bastassero si aggiunge il fatto che i giovani tendono a cambiare spesso lavoro, quindi le aziende si trovano spiazzate anche quando decidono di investire in formazione. «Questo succede in tutto il mondo - sottolinea Del Conte -. Ma con la differenza che nei Paesi nei quali la formazione è sostanzialmente finanziata dal pubblico, le imprese raccolgono dal contesto dei distretti i giovani che hanno avuto questo percorso formativo e quindi, anche poi se ne vanno, sanno di trovarne altri, cioè c’è molta più mobilità tra aziende dello stesso distretto».

Distretto delle competenze

Il valore di questa impostazione è che per uno che se ne va, altri rimangono sul territorio se ben formati. Magari non nella stessa azienda ma nello stesso «distretto di competenze». Non si può certo scaricare sui giovani una responsabilità che non è loro. «Se tu giovane - aggiunge Del Conte - hai delle competenze spendibili sul mercato del lavoro è giusto che te le vada a spendere dove vengono pagate di più. È una questione di riconoscimento. Il giovane non cambia lavoro perché l’hai formato e vuol farti un dispetto, lo fa perché tu non lo hai valorizzato adeguatamente. C’è un problema di cultura imprenditoriale che tende a non considerare sufficientemente il ruolo che deve avere comunque l’impresa di far crescere professionalmente i giovani. Non è una questione morale, è una questione proprio di capire qual è l’interesse complessivo di sviluppo del sistema economico. Perché uno deve restare in un contesto che sostanzialmente non lo valorizza? Non c’è come coltivare le competenze, le capacità, le persone, il cosiddetto capitale umano, per poi vedere nel lungo periodo effetti positivi proprio sullo sviluppo». Un po’ sullo stile della Motor Valley in Emilia Romagna, cioè un territorio dove si è pensato di far crescere una generazione di giovani tecnici che conoscono bene il mestiere e così le imprese poi fanno meno fatica a incrociare le competenze di cui hanno bisogno. Così si crea un ciclo virtuoso che fa crescere la comunità nel suo complesso. «Purtroppo per noi - dice il professor Del Conte - queste sono esperienze rare. Manca una regia nazionale che allarghi, oltre al singolo territorio, questa circolazione delle competenze. Perché è inutile che ci chiediamo: ma che cosa è successo ai giovani e alle imprese in Italia? Non è che siamo cattivi noi italiani. È che, da una parte, prendi e paghi dei ragazzi che non sono sufficientemente formati, e dall’altra hai tante imprese che non si collocano sulla parte alta del mercato. Quindi il tuo lavoro vale di meno».

Grandi risorse spese male

La Lombardia è un’eccezione rispetto al resto d’Italia perché si fa molta più formazione, ma anche qui resta il problema di trovare giovani. «Abbiamo un sacco di soldi, un sacco di risorse pubbliche europee per la formazione. Purtroppo li spendiamo male in corsi di lingue o in pacchetti informatici di base. Non è questo quello che richiede la rivoluzione digitale. Forse poteva andar bene 25 anni fa, ma adesso è decisamente inutile. La verità - conclude il docente della Bicocca - è che al solito l’Italia ha sperperato la grande opportunità dei fondi del Pnrr per la formazione: non è uscito un piano di riforma della formazione professionale. Noi siamo bravissimi a lamentarci che non ci sono le risorse e quando le abbiamo non sappiamo bene che farcene. Il risultato è che abbiamo distribuito sull’esistente molte risorse in più, senza la necessaria programmazione a evitare la grande abbuffata di formatori che poi si rivelano assolutamente inadeguati a fornire i giovani delle competenze promesse».

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