Afghanistan ancora
una bomba a orologeria

Il ritiro occidentale dall’Afghanistan è il regalo avvelenato di Joe Biden a Russia e Cina. Dopo un ventennio, da quel tragico 11 settembre che rivoluzionò le priorità dell’agenda internazionale, gli Stati Uniti modificano uno dei principali vettori della loro politica estera, ridimensionando il pericolo del terrorismo radicale. Allo stesso tempo la Casa Bianca non vede più ragione di continuare a togliere le castagne dal fuoco a partner diventati ostili su altri scenari. Dopo la crisi ucraina del 2014 sono finiti i tempi in cui i russi passavano informazioni di intelligence, indicando ai colleghi occidentali gli obiettivi da colpire in Afghanistan, o mettevano a disposizione corridoi aerei. Così ora torna a suonare forte l’allarme nelle cancellerie dell’Asia centrale ex sovietica. Il ritiro delle truppe della Nato significa il rischio del ritorno allo scenario di fine anni Novanta, quando erano continui gli attacchi oltre confine dei radicali islamici con l’appoggio di gruppi fondamentalisti locali.

Il presidente russo Putin ha parlato con i colleghi uzbeco e tagico, ma intense sono le consultazioni fra tutti i leader regionali. Al momento Mosca non è intenzionata in prima persona a colmare il vuoto che si sta lasciando alle spalle l’Alleanza atlantica. Preoccupa, però, che a fine giugno centinaia di militari governativi afghani siano fuggiti in Tagikistan inseguiti dai talebani, segnalati in rapida avanzata in tutte le province del Paese. Dushanbé ha mobilitato 20 mila uomini sul suo confine meridionale e Mosca ha messo a disposizione la sua base, sede della 201ª divisione motorizzata. Si vedrà adesso anche se gli Stati, facenti parte dell’Accordo di sicurezza collettiva - una specie di mini-Patto di Varsavia a livello di Csi, la Comunità sorta sulle ceneri dell’Urss - tanto pronti a parate, dichiarazioni infuocate e manovre varie, sono anche disposti a sporcarsi le mani in prima persona in un Paese, già occupato dai sovietici per un decennio dal 27 dicembre 1979 al 15 febbraio 1989. Ma intanto gli americani, che terranno comunque nella regione una limitata presenza militare, hanno lasciato all’improvviso la base di Bagram, simbolo dell’intervento occidentale.

Si ritireranno del tutto dall’Afghanistan entro l’11 settembre in ottemperanza agli Accordi di Doha. Così ha promesso il presidente Biden, che gode dei primi frutti dell’Accordo di Abramo - tra arabi ed israeliani - per riposizionare gli Stati Uniti sullo scenario mediorientale e nel mondo islamico. La Cina osserva interessata gli eventi in corso dietro alla porta di casa sua, a quattro passi dallo Xinjiang, dove, secondo Washington, vengono violati i diritti umani degli uiguri, popolazione turcofona musulmana. Pechino sta discutendo sia coi governativi afghani sia con i talebani per costruire un ramo della sua nuova «Via della Seta» (con infrastrutture per miliardi di dollari), che già tocca il Pakistan.

Tenta di sedurre le parti con i soldi. La sua leadership, con le annesse ambizioni globali, verranno messe qui alla prova. In ultimo, l’Afghanistan. Dopo 20 anni di presenza occidentale i governativi sono abituati al fatto che qualcuno li difenda e l’unica vera forza militare sul terreno è quella dei talebani. L’intelligence Usa prevede la caduta di Kabul nell’arco di sei mesi. Sono i fondamentalisti ad avere l’unico collante ideologico, che unisce, in un Paese multietnico, con strutture tribali funzionanti, piene di Signori della guerra, senza un vero concetto di Stato. Non essere riuscito a sradicare questa dinamica malsana è il vero fallimento dell’Occidente.

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