Anche l’Unione europea è in guerra, ma al suo interno

Le guerre sono due. L’una con carri armati, missili, cannoni e morti in Ucraina. L’altra sotterranea fatta di incontri, vertici, ipocrisie diplomatiche e sorrisi e si combatte a Bruxelles. L’Unione europea ha il grande merito di rendere indolore quello che nella storia si paga con sangue e miseria. Ma è necessario non equivocare: non è un incontro conviviale. L’Italia percepisce l’Europa in chiave solidaristica. L’aiuta in questo suo slancio ecumenico l’idea che il più forte deve aiutare il più debole.

E questo spiega perché ogniqualvolta lo sperato sostegno viene meno la delusione è grande e subito si passa al risentimento. L’euroscetticismo viene da qui. E Giorgia Meloni lo sa bene perché nel suo partito non sono mancate riserve e avversioni verso l’Europa. È un sentimento che attraversa trasversalmente un po’ tutti gli schieramenti politici, dai Cinque Stelle alla Lega. Meloni come capo del governo percepisce come non sia così facile per uno Stato che ha il terzo debito al mondo prescindere dagli umori dei creditori.

Liz Truss, premier britannica, dopo 45 giorni ha dovuto rassegnare le dimissioni perché ha abbassato le imposte senza tener conto della sostenibilità di bilancio. I mercati hanno colpito un Paese che è il centro finanziario d’Europa. Con e senza Brexit. Il presidente del Consiglio italiano è persona che impara in fretta e uno dei suoi primi avvisi ai naviganti è che non si fanno spese senza copertura. Il deficit salirà nel prossimo anno ma di poco sopra il 4% del Pil. Contenuto quel tanto da permettere di intervenire senza rompere gli equilibri delicati delle finanze nazionali. Ma proprio questa cautela la espone al rischio di non poter fare abbastanza per aiutare imprese e famiglie a stare sul mercato, le prime, e a non far crollare la domanda interna. Il tutto in un contesto europeo di moneta unica e di mercato senza barriere. Se agli altri Paesi membri dell’Eurozona, riesce in ragione di una migliore situazione finanziaria, di fare quello che al governo italiano è di fatto impedito, le imprese italiane si trovano a godere di meno aiuti e quindi perdono in competitività. Ed è il problema che ha sollevato il pacchetto di aiuti di 200 miliardi deliberato dal governo tedesco in favore dell’economia. Andava quantomeno concordato a livello europeo.

Emmanuel Macron si è offeso e ha annullato il vertice franco tedesco previsto per fine ottobre. Il conflitto ucraino ha reso evidente alle imprese tedesche quello che il prezzo a buon mercato del gas russo aveva nascosto. Èil ritardo tecnologico il vero tallone d’Achille dell’economia tedesca. Quando nel 2015 l’allora cancelliere Angela Merkel chiuse le centrali nucleari l’energia mancante venne compensata con nuovi accordi con Putin anche dopo l’invasione della Crimea. Così mentre Elon Musk costruiva Tesla e lanciava l’auto elettrica a Wolfsburg e dintorni si inventavano un software per aggirare le norme anti inquinamento per non mollare l’amato diesel. Questa miopia di strategia industriale va di pari passo con una politica di totale dipendenza da Pechino. Il 40% delle vetture costruite dai marchi tedeschi viene venduto in Cina. Così mentre Xi Jinping rafforza la sua leadership e torna a minacciare Taiwan, priva Hong Kong della libertà politica e opprime e deporta il popolo uiguro, Olaf Scholz vola a Pechino scortato dall’aristocrazia industriale tedesca. La Germania va per proprio conto e mostra alla Francia di poter far da sola.

In questo scenario Giorgia Meloni dovrà far presente gli interessi italiani. Ci riuscirà facendo asse con il non amato Macron. Su un punto avrà un vantaggio sui suoi predecessori: la convinzione che l’Unione Europea non è una società a scopo benefico.

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