(Foto di ansa)
MONDO. La lezione di Natale è un dolore immenso. Papa Leone detta un capitolo dopo l’altro nella Messa della notte e poi in quella del giorno, nel Messaggio Urbi et Orbi, fino all’Angelus di Santo Stefano, memoria liturgica di uno che per primo ha spiegato con la vita come si fa una pace «disarmata e disarmante», binomio di aggettivi che Leone segnala dall’inizio del Pontificato come unica strategia coerente per cambiare il mondo.
Ma la lezione di Natale è anche un’esame di coscienza politica, che nessuno intende fare e che Leone invece inchioda sulla fronte di ogni leader e sulla facciata di ogni Cancelleria. È un sussidiario di sofferenze e di angosce, che scivolano via, a cui abbiamo fatto cinica abitudine, diventate solo fastidio per quasi tutti. La lezione di Leone a Natale è insomma un drammatico richiamo all’ordine sul bordo del precipizio, una sorta di monito finale ad un’umanità che sembra solo coerente con la propria disumanità. Il Papa è l’unico leader che può parlare così, perché un cristiano, secondo il Vangelo, non ha nemici, né può, né deve mantenere «prudenti distanze», perché sempre il Vangelo, l’intera storia di Gesù e quella di tutti i santi prescrivono e ordinano di toccare con mano «le miserie umane», le «piaghe» della carne, di considerare l’insensatezza e la follia di ogni ferita e di ogni morte.
La lezione di Natale indica anche un metodo, che sbaraglia i monologhi di leader arroganti e presuntuosi. Allora ci sarà pace, è convinto il Papa, ma solo quando cadremo in ginocchio di fronte alla «carne altrui»
Nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del prossimo 1° gennaio aveva denunciato che oggi è considerata una «colpa» la critica a non armarsi abbastanza. A Natale ha usato parole pesanti come sassi per sottolineare il concetto con la matita rossa, perché evidentemente qualcuno fatica a capire, e ha spiegato che chi si ostina a parlare di pace viene «ridicolizzato» e perfino «spinto fuori dal discorso pubblico», insomma messo a tacere, accusato di favorire «avversari e nemici». Alzi la mano chi trova un altro che parla così, chi usa parole così severe nella critica globale al potere. Leone nei giorni di Natale si è spinto ogni ora più in là fino alla manifestazione dello sgomento più disperato: «L’uomo vuole diventare Dio per dominare sul prossimo». L’analisi riprende il filo di quelle di Francesco e qualche volta la supera. C’è l’economia «distorta» che tratta le persone come «merce», c’è il freddo, l’acqua e il fango delle tende di Gaza, fase due del genocidio e illusione di una tregua che manca, c’è una schiera di giovani mandati a morire sulla base delle menzogne di discorsi «roboanti» di chi li arruola e «al fronte capiscono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto». Prevost non distingue, come invece accade agli altri leader del mondo, sulle differenze dell’arruolamento, non giustifica arruolamento buono da arruolamento cattivo, non cede ad alcuna giustificazione politica circa l’invio alla morte in guerra. Ribadisce che nulla di buono nasce dall’esibizione della forza. Invece tutto nasce quando il dolore degli altri penetra il cuore e «manda in frantumi le nostre certezze granitiche»: «Allora inizia già la pace». È la lezione più importante e chiude la bocca a coloro che criticano i Pontefici accusandoli di proporre solo analisi e non soluzioni. Leone è chiaro e fa sapere urbi et orbi che la pace nasce fra le rovine e che sono proprio quelle rovine ad invocare nuove solidarietà. La chiama «strade verso l’altro», che non si serve di una «parola prepotente», ma di una «presenza che suscita il bene» senza arrogarsene il monopolio, perché anche le parole vanno disarmate e un nuovo linguaggio disarmante deve costruire il dialogo, certificare responsabilità, incoraggiare in modo sincero e rispettoso.
La lezione di Natale indica anche un metodo, che sbaraglia i monologhi di leader arroganti e presuntuosi. Allora ci sarà pace, è convinto il Papa, ma solo quando cadremo in ginocchio di fronte alla «carne altrui». Oggi è quello che manca e allora il Papa deve ripetere, precisare, spronare. Quello che chiama il «sovvertimento del Natale» non è che l’ovvio del Vangelo, e cioè amare chi vedi perché ha il volto di Cristo, di quel bambino nella mangiatoia di Betlemme che tra poco diventerà profugo, migrante per salvarsi la vita in terra straniera, esattamente come oggi ancora accade nel Mediterraneo, in America e a molte, troppe latitudini della terra.
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