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ITALIA. Ci vorrà del tempo per arrivare al dibattito e al voto in aula sull’autorizzazione a procedere contro i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza Mantovano per l’affare Almasri: la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha fatto questa scelta all’unanimità: tempi lunghi.
Il fatto che si vada oltre settembre significa una cosa sola: che la storia del boss libico scarcerato e portato a casa sua dal nostro governo, nonostante la richiesta di arresto da parte della Corte penale internazionale, ci accompagnerà per tutte queste settimane estive accalorando lo scontro tra la destra e i giudici, tra la destra e la sinistra.
Certo il governo, alle prese con l’iniziativa giudiziaria del Tribunale dei ministri contro i tre esponenti ministeriali ma non contro la premier la cui posizione è stata archiviata, si è messo in una situazione abbastanza paradossale. Mentre quando la storia arrivò in Parlamento si capiva bene che Nordio e Piantedosi si stavano arrampicando sui tecnicismi per giustificare una scelta che non volevano fosse considerata «politica», adesso Meloni è la prima a rivendicare proprio a sé stessa una condotta politicamente fondata: abbiamo agito per difendere l’interesse nazionale di fronte a possibili rappresaglie delle bande che obbediscono ad Almasri in Libia.
È la stessa posizione del Guardasigilli, che rivendica alla sua «responsabilità politica e giuridica» le scelte del ministero cercando così di scagionare il suo capo di Gabinetto le cui dichiarazioni sono considerate «contraddittorie se non mendaci» dal Tribunale dei ministri.
Siamo dunque di fronte ad un cambio di linea che in qualche modo bisognerà giustificare quando si voterà in Parlamento per le autorizzazioni a procedere (scontato che saranno respinte per i ministeriali, più complicata la faccenda del capo di Gabinetto di Nordio). Insomma, le cose non saranno facili: il governo si è esposto ad una facile polemica da parte delle opposizioni, basta ascoltare Renzi per capire dove va a parare la minoranza: «Siamo in mano a dei dilettanti allo sbaraglio». Per questa ragione ora la premier fa un fuoco di sbarramento soprattutto contro la magistratura, accusandola di perseguire un disegno politico ostile al governo, teso soprattutto a minarne la politica di respingimento dell’immigrazione clandestina anche come rappresaglia per la riforma della giustizia che sancisce la separazione delle carriere tra giudici e procuratori, che modifica il Csm e punta a smantellare le correnti organizzate dell’Anm. Un copione di botta-e-risposta che ormai conosciamo a memoria: il centrodestra parla di magistratura politicizzata, i magistrati rispondono protestando perché si minerebbe la loro autonomia e indipendenza. È dai tempi di Berlusconi che va avanti così.
Ma la premier ce l’ha anche con le opposizioni. Accusa di «anti-italianità» il duo Bonelli & Fratoianni che intende denunciare il governo di fronte alla Corte penale internazionale per complicità con Israele a Gaza, e se la prende con Giuseppe Conte, anzi con «un Conte qualsiasi» ricordandogli che lei è un premier che si assume le sue responsabilità nella guida dell’intero governo («non sono mica Alice nel Paese delle meraviglie») a differenza sua che, ai tempi della vicenda della Open Arms «fece finta di non sapere cosa stava facendo il suo ministro dell’Interno Salvini con la chiusura dei porti alle navi delle ong».
Conclusione: la premier rinfaccia alla sinistra di cogliere ogni occasione per utilizzare i giudici cercando di sconfiggere la maggioranza e il governo attraverso la via giudiziaria dal momento che non riesce a centrare l’obiettivo per via elettorale.
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