Come uscire dal guado: per Meloni due ostacoli

POLITICA. «Rimane una sconfitta sulla quale ragioneremo sui possibili errori commessi»: questo il commento a caldo fornito da Meloni alla bocciatura elettorale della Sardegna. Omaggio al merito: ha dato prova, se non di umiltà, quanto meno di realismo.

Ha evitato di rifugiarsi nelle solite, penose auto giustificazioni degli sconfitti. Era meglio, però, che si risparmiasse quel «possibili»: gli errori commessi non sono possibili ma certi. Per di più, testardamente ripetuti. Non le ha insegnato nulla la (scontata) brutta figura fatta dal suo (improbabile) candidato a sindaco di Roma? Promette ora: la sconfitta sarà «sprone per fare ancora di più e meglio». Solo che, con tutta la buona volontà del caso, non le sarà facile riuscire nell’impresa. Ha una montagna da scalare, anzi due.

La prima, la meno ardua, è come procedere nella futura scelta delle candidature, sia nel merito che nel metodo. S’è visto dove porta far calare dall’alto, per di più in contrasto con gli alleati, il nome del prescelto: prescelto per non altro merito che di far parte del proprio cerchio magico. In tempi di imperante antipolitica è difficile per tutti trovare amministratori capaci. È ancora più difficile per un partito che era impreparato a reggere la responsabilità di primo partito d’Italia. Non ha - non può avere dopo la sua lunga storia di marginalità, di lontananza dai circuiti del potere - una classe dirigente adeguata ai compiti che l’aspettano. E non è certo una soluzione cercarla all’interno delle strette mura di casa, come ha fatto, un po’ costretta, Meloni. Ma questa è solo la prima montagna da scalare che l’attende. Ne ha anche una seconda, ancora più difficile. Si è ripromessa di raggiungere la vetta del conservatorismo liberale partendo dal bassopiano del nostalgismo neofascista. Cambiare identità è già di per sé proibitivo. Lo diventa ancor più quando si è troppo legati al proprio passato. Legata non lo è solo lei ma - quel che ancor più pesa - lo è la cerchia dei suoi fedeli. Fino ad oggi, il nuovo corso le ha riservato solo belle sorprese. Le ha fatto consolidare la leadership nel partito, nella coalizione e nel Paese. Le ha fatto guadagnare una buona credibilità internazionale, non scontata né facile da conquistare. Le ha permesso di oscurare le magagne del partito: deficit di classe dirigente, incoerenza con le promesse elettorali, sindrome da assedio, sdoppiamento di identità.

La smentita elettorale di domenica scorsa ha gettato ora un’ombra minacciosa sul suo futuro. Meloni ha cercato subito di correre ai ripari: fine delle liti sulle candidature, conferma degli amministratori uscenti. È solo un primo passo. Niente di fronte alla salita che l’aspetta. Deve trascinarsi il partito, possibilmente integro, fino alla vetta. Deve dare sostanza e coerenza alla - finora davvero solo abbozzata - strategia liberal-conservatrice. Deve liberarsi dal retaggio, duro a morire, di destra antisistema, euroscettica e populista. Bel problema. Ha una destra tutta da inventare, di cui peraltro non si vedono in giro modelli da imitare. Il grave è che non ha nemmeno troppo tempo a disposizione. Se resta, infatti, nel guado, ferma tra la riva del nostalgismo e la riva del conservatorismo, è difficile che la coalizione regga. Forza Italia, sulle spine dopo la scomparsa del suo fondatore, cerca rifugio al centro. La Lega, orfana dell’autonomismo bossiano, con le ossa rotte per il fallimento del progetto salviniano del «partito nazionale», non trova di meglio che cercare scampo all’estrema destra.

Fino ad oggi, il centrodestra ha fatto dell’unità interna il suo punto di forza nella competizione con il centro sinistra. Se FdI resta troppo a lungo nel guado, è l’unità della coalizione che rischia di finire affogata.

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