Crisi al buio
nel governo
Equilibri
difficili fuori

S’impone una regola proverbiale: le crisi al buio si sa dove iniziano, non come finiscono. C’è sempre l’imponderabile, vedi l’inchiesta sul centrista Cesa, tirato di qua e di là. Oppure qualche calcolo sbagliato. Persino l’inatteso: tipo riconciliazione con Renzi. La partita non finisce pure nell’eventualità di un Conte ter, perché non sarebbe un semplice rimpasto. I giochi sono tutti interni al centrosinistra, estesi alla palude centrista dei «volenterosi». Ma anche l’opposizione non ha motivi per rallegrarsi dei guai altrui: ferma all’ipotesi d’ufficio del voto anticipato, immobile lungo un tracciato difficilmente percorribile. Il voto anticipato resta sullo sfondo, come grimaldello per Conte e una parte del Pd per spingere gli indecisi a puntellare la maggioranza.

Anzi: il timore delle urne potrebbe essere il miglior viatico per far uscire allo scoperto la quarta gamba in soccorso del premier, o di favorire la tregua con i renziani. L’assenza di una controproposta produttiva emargina il centrodestra dal tavolo dove si decideranno il futuro presidente della Repubblica e le riforme del sistema, a cominciare da quella elettorale. Gli sconquassi elettorali di questi anni hanno rotto la logica gerarchica del berlusconismo, senza dare un senso definito alla coalizione, nella leadership e nell’offerta politica. Alla competizione Berlusconi-Salvini s’è aggiunta Giorgia Meloni in ascesa.

Salvini sembra inseguire, teme di concedere nuovi spazi sulla destra all’alleata, che già gli ha portato via il 10% di consensi virtuali. La leader di Fratelli d’Italia è la più determinata a volere «elezioni e basta», ma Salvini non ha quei margini di manovra che alla Meloni derivano dall’essere alla guida dei conservatori europei, cioè di una storica famiglia politica. Il Capitano, pur avendo abbandonato alcuni spigoli tossici del populismo, li ha messi sotto il tappeto, ma non ha cambiato schema. Pure lui non sa che pesci pigliare, riducendosi lo spettro di argomenti da colpire: non può sostenere il «liberi tutti» sul piano sanitario-produttivo e non può attaccare l’Europa proprio ora con la manna piovuta dal cielo di Bruxelles. Nel gioco di sponda con il suo recente passato, ha ripristinato fuori tempo massimo la mai pervenuta «rivoluzione liberale».

Non s’è reinventato, non s’è de-salvinizzato, è rimasto in mezzo al guado e così il centrosinistra può rendere plausibile qualsiasi ardito equilibrismo che non contempli Salvini a palazzo Chigi. Il Conte 2, con tutti i suoi deficit, ha detto che il radicalismo non è ineluttabile ma arginabile e i consigli di Giorgetti, eminenza grigia della Lega, fin qui non seguiti da Salvini perché contribuisca ad un governo istituzionale paiono una soluzione, forse costosa ma ragionevole, per un rientro responsabile nei ranghi convenzionali.

Fra Meloni e Salvini c’è poi Berlusconi: un leone in gabbia, comunque indispensabile. Vorrebbe dare più o meno una mano a Conte: il voto lo vede come nefasto (dipende dai giorni: ieri non era così), la legge elettorale proporzionale gli consentirebbe di svincolarsi dalla stretta salviniana e non gli dispiacerebbe vedere la sostituzione del Guardasigilli «giustizialista» Bonafede. Ma non può, preso nella tenaglia: da un lato i due partner, dall’altra i «cacciatori di responsabili» in un feudo azzurro fattosi espugnabile. Le stagioni, però, cambiano anche per un destra-centro vecchiotto e ibrido, privo di baricentro. Il ciclo iniziato da Biden rimbalzerà in Europa: era già successo con Kennedy, Reagan, Clinton. Il decennio nazional-populista dopo l’espansione massima potrebbe essere già entrato nella fase di contenimento: buon per noi.

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