Diplomazia per gestire la polveriera del Sudan

ESTERI. Pessime notizie dall’Africa. In Sudan è scoppiata la guerra civile che potrebbe potenzialmente far deragliare l’intera area nord-orientale del continente con pesanti ripercussioni anche per l’Europa, e l’Italia in primis, dal punto di vista migratorio.

Dopo l’evacuazione degli stranieri da Khartoum la speranza delle diplomazie occidentali è ora di riuscire miracolosamente a fermare il conflitto, ma gli specialisti sono pessimisti. Le dinamiche sudanesi sono le solite già osservate a queste latitudini. Come accaduto con le fallite «primavere arabe» - iniziate nel 2011 in Tunisia, Egitto e Libia - il potente di turno è stato detronizzato. È seguito un periodo di apparente libertà e di disordini. In Tunisia ed Egitto è stato trovato successivamente un precario equilibrio statuale, mentre in Libia e in Siria la guerra civile ha distrutto il Paese.

In Sudan il dittatore Omar al-Bashir è rimasto abbarbicato al potere per tre decenni, seguendo alla lettera il classico «divide et impera», mettendo gli uni contro gli altri, sopravvivendo alla secessione del Sud Sudan nel 2011 e resistendo persino al mandato d’arresto del Tribunale internazionale per i crimini di guerra in Darfur. Ma si è arreso nel 2019, quando le proteste popolari e lo smarcamento da lui delle Forze armate (Ffaa) e delle milizie di Supporto rapido (Rsf) l’hanno messo da parte, dividendo il potere per due anni tra civili, militari e paramilitari. Fino al golpe del 2021, quando, fatti fuori i civili, gli ultimi due gruppi si sono spartiti potere e ricchezze. Da metà aprile i due schieramenti armati si sparano addosso.

Come uscire da questa situazione dinamitarda per la comunità internazionale? Per prima cosa, va evidenziato che gli interessi dei 45 milioni di sudanesi divergono da quelli delle Ffaa e delle Rsf. Ma sono le armi, in questi casi, a fare la differenza. La seconda è che dietro alle quinte i militari possono contare sull’appoggio dell’Egitto, mentre i miliziani – già combattenti in passato in Libia e in Yemen, ritenuti responsabili delle violenze in Darfur –, sono vicini agli Emirati Arabi Uniti e all’Arabia Saudita. Non da sottovalutare sono anche sia l’elemento islamico (utilizzato da Omar al-Bashir) sia che i miliziani sono l’espressione delle province e di varie etnie.

Già colonia britannica, il Sudan è un altro esempio di fallimento di Stato costruito secondo i canoni europei. Anche i suoi confini - chiamiamoli impropriamente - «storici», tracciati da altri, sono stati ritoccati nel tempo. Quindi, che fare? «L’argent» a pioggia in caduta nei pozzi giusti, la garanzia delle ricchezze dei caporioni e il tenere fuori dal Sudan certe potenze straniere in cerca di avventure (o semmai coinvolgerle con sapienza) sono le vie maestre per evitare il disastro insieme all’uso di un’influente diplomazia dotata del «manganello economico» da utilizzare contro le «teste calde» nei tradizionali paradisi fiscali, dove, in genere, fuggono i capitali.

Gli storici legami britannici e l’esperienza americana con l’intervento sui sauditi e sugli egiziani possono fare la differenza. Come ha dimostrato la tragedia ucraina, quando i popoli iniziano a fuggire, poi è difficile gestire le susseguenti fasi umanitarie. Il Mediterraneo potrebbe diventare così presto un cimitero di dimensioni spaventose. L’Africa è l’ultima vera frontiera dell’umanità. I suoi margini di sviluppo in questo secolo sono enormi. E gli interessi in ballo astronomici. Occidentali, cinesi, russi e ora giapponesi cercano attivamente la strada giusta, ma per far diventare l’Africa un salotto ci vorrà ben altro.

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