Disunità nazionale
La politica
da rifondare

È stato definito «governo di unità nazionale», ma da quel che si vede parrebbe più un «governo di disunità nazionale». Non c’è tema caldo dell’agenda politica su cui non si registrino evidenti, plateali, talora addirittura vantate, divergenze tra i vari partiti di maggioranza. Solo per citarne i più recenti: obbligo vaccinale, green pass, immigrati, reddito di cittadinanza, Monte dei Paschi di Siena. Nessuno certo s’illudeva sul fatto che, come per incanto, potessero sparire i motivi di contrasto tra partiti storicamente avversi solo perché convergevano a sostenere un governo di solidarietà nazionale, di fronte a un’emergenza. Ci sarebbe da aspettarsi, però, che i nemici/alleati mostrassero buona volontà nel tacitare e, quando questo non è possibile, nello smussare le questioni che possono suscitare aspri contrasti.

Abbiamo dei precedenti illustri nella nostra storia repubblicana. Una prima volta nel 1945-47, una seconda nel 1976-78 acerrimi nemici come la Dc e il Pci, per il bene supremo della democrazia, nel primo caso da costruire dopo la caduta del fascismo, nel secondo da salvaguardare dal pericolo del terrorismo, seppero mettere la sordina alle loro contese. Il contrario di quel che fanno oggi i partiti. Lungi dal silenziare i motivi di contrasto, si prodigano ad amplificarli. Li agitano come drappi rossi che fanno infuriare gli alleati/avversari.

Risultato: le divisioni si alimentano. Non solo si dividono destra e sinistra, ma si aprono fratture anche all’interno dei due poli e nei singoli partiti. Salvini e Letta tornano a incrociare le spade. Tra Cinquestelle e Pd sorgono malumori; nel loro interno poi, ci si scontra tra governisti e nostalgici del «Vaffa», tra fautori e scettici dell’alleanza con Conte. Nel campo avverso del centrodestra non basta la dislocazione di FdI all’opposizione e di Lega e FI in maggioranza a creare tensioni e rivalità. Nella Lega, Salvini subisce la dissidenza, per ora solo tacita, dei ministri e dei governatori del Nord. Non apprezzano la sua linea ballerina di lotta e di governo, mentre Berlusconi è alle prese con una silente ma continua emorragia di parlamentari che cercano altre sponde.

È uno scenario, questo, destinato peraltro a esacerbarsi. Sono in calendario le elezioni amministrative d’autunno. È scattato il liberi tutti del semestre bianco, durante il quale il Capo dello Stato non può più sciogliere le Camere. Sono cominciate le grandi manovre per la rielezione del presidente della Repubblica.

Tutti litigano, ma nessuno rompe. Anzi, tutti si sentono liberi di litigare proprio perché tutti sanno che nessuno ha interesse a rompere. Col Prodotto interno lordo in crescita (più 5%) e la vaccinazione che procede al ritmo di 500 mila dosi al giorno, chi osa assumersi la responsabilità di mandare tutto all’aria? Liberi di litigare tra loro, ma stando ben attenti a restare all’ombra di Draghi, verso il quale fanno anzi a gara nell’ostentare il loro appoggio e la loro piena fiducia. Si realizza così la dissociazione di un governo di unità nazionale e di una maggioranza di «disunità nazionale».

Vien da chiedersi come pensano i partiti, se continuano a praticare la disunione, di entrare in sintonia con un’opinione pubblica, esaltata in questi giorni davanti alla prova dei suoi atleti che oltre alle medaglie hanno esibito, loro sì, un sentimento di unità nazionale? Lo hanno fatto con la conquista sui campi di calcio della Coppa europea e di un nutrito medagliere alle Olimpiadi di Tokyo. Il governo del tecnico Draghi doveva essere la messa in mora della politica. Ne sta tracciando la sua rifondazione.

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