Draghi da supplente
ad arbitro invocato

Non ci siamo ancora liberati dall’incubo della pandemia che ne dobbiamo affrontare uno nuovo, altrettanto inaspettato e parimenti devastante sul piano economico: il caro bollette. Non è tutto. Si riaffaccia anche una vecchia conoscenza degli anni Settanta: l’inflazione, insaziabile divoratrice del potere d’acquisto dei percettori di reddito fisso, la maggioranza degli italiani. Draghi fa quello che può, ma non c’è da farsi troppe illusioni. Le misure allo studio saranno inesorabilmente troppo poco rispetto alle attese e alle necessità di famiglie e imprese. Pandemia, caro bollette, inflazione, debito pubblico da capogiro, tassi d’interesse in salita, spread in tensione: anche un governo che contasse sul sostegno corale di una maggioranza davvero solidale avrebbe il suo bel da fare per superare una sfida di questa portata.

Figuriamoci un governo che galleggia sul mare già oggi agitato di partiti sempre in lite tra loro e che lo diventerà ancor più con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale dell’anno prossimo. Il «tecnico» Draghi è stato chiamato a supplire i partiti in attesa che si rialzino dal pantano: dopo le prove assai poco esaltanti, offerte con le continue giravolte di parlamentari e le combinazioni di governo che tradivano ogni regola di coerenza, da ultimo si erano dimostrati incapaci persino di dar vita a una maggioranza di fine legislatura. È allora che si è ricorsi all’ex presidente della Bce, un uomo capace di affrontare la grave emergenza: una sorta di dictator, il magistrato che il Senato romano chiamava a reggere temporaneamente le sorti della Repubblica, investendolo di poteri straordinari. Insomma, la sua doveva essere una supplenza temporanea, in attesa dell’auspicabile superamento dell’emergenza.

Purtroppo per noi, l’emergenza si sta prolungando oltre le attese. Il dictator rischia di farsi dittatore. Non - si badi bene - per bramosia di potere del civil servant, ma per pochezza e insipienza dei partiti. Questi, dalla prova del fuoco dell’elezione del presidente della repubblica, invece di uscirne rinfrancati, ne sono usciti con le ossa rotte. Le coalizioni sono collassate e non si vede come possano rinsaldarsi in tempo utile per affrontare la prova dell’ormai imminente voto politico. Con un duplice danno: anche la prossima legislatura minaccia di aprirsi sotto una cattiva stella. Che si superi l’attuale sistema elettorale, il cosiddetto Rosatellum, che prevede una parziale correzione maggioritaria, o che si torni al proporzionale, nessun partito sarà in grado di assicurare la formazione di una salda maggioranza. Non c’è da credere agli odierni proclami di ottimismo di destra e sinistra.

La Meloni ha un bel dirsi sicura di essere la prossima premier e Letta di ostentare sicurezza sulla validità della sua strategia, fondata sul rapporto speciale stretto con il traballante presidente dei Cinquestelle, Giuseppe Conte. Le loro sicurezze sono solo degli auspici di rito. Non a caso è tornata d’attualità la proposta di tornare al proporzionale: segno eloquente che tutti i partiti non si fanno troppe illusioni sulla possibilità di dar vita a un governo organico e saldo dopo il 2023. Ci sono tutte le premesse perché il magistrato supplente Draghi diventi anche nella futura legislatura l’arbitro invocato, anche se obtorto collo, dai partiti per scongiurare un loro nuovo, ancor più rovinoso fall out: una caduta da cui sarebbe davvero difficile per loro riprendersi. Non c’è bisogno che Draghi, come in passato provò a fare un altro «tecnico» (Mario Monti) di dar vita a un partito per prolungare la sua supplenza. Sarebbe la logica delle cose a renderlo arbitro del gioco, per la gioia dei cespugli centristi, ansiosi di trovare un leader all’altezza delle loro ambizioni.

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