Draghi-Erdogan tra valori e realismo

La fragile tregua in Libia e la crisi diplomatica fra Italia e Turchia riaffermano la centralità del Mediterraneo, il nostro cortile di casa. Non c’erano dubbi. Il tutto mentre il mondo post Trump continua ad avere la febbre. L’America, dopo 20 anni, annuncia il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e noi cominceremo il rientro da maggio. La Russia è di nuovo sotto sanzioni statunitensi e intanto l’Ucraina denuncia che Mosca ammassa soldati ai propri confini orientali. Nei Balcani si riaffaccia una certa tensione etnica. Biden è tornato ai fondamentali dell’atlantismo, rimettendo le democrazie al centro degli equilibri globali. Il canone è «dialogo con fermezza».

E l’Italia, più di ieri, s’è incardinata nel campo occidentale, dimostrando con il governo un inedito attivismo: ha reagito energicamente verso la Russia contro i tentativi di spionaggio, in Libia ha affermato il netto sostegno al governo provvisorio che riunisce Tripolitania e Cirenaica e con l’Europa è stata critica sui vaccini. Poi è intervenuto il «sofà-gate», uno sgradevole fuori programma, seguito dall’attacco di Draghi a Erdogan («dittatore») che ha innescato un contenzioso con Ankara tuttora in corso. Una frase forte quella del premier italiano, inattesa e inusuale nel lessico diplomatico perché di norma le denunce sono impersonali, quasi uno strappo lessicale e istituzionale.

Un affondo che fa il paio con il «killer» di Biden a Putin: un linguaggio comune, una sintonia concettuale. Un attivismo trainato dalla credibilità internazionale del capo del governo italiano, una personalità che, per il «New York Times», «sta facendo dell’Italia una potenza in Europa». Fin qui la parte gratificante, che merita qualche riflessione aggiuntiva.

L’uscita di Draghi è stata salutata in modo bipartisan dai parlamentari italiani, ma con maggior prudenza dagli osservatori di cose internazionali e in Europa, a parte un ministro francese, c’è stato silenzio. La materia è delicata e non si presta a schemi netti: per il destinatario e per il Paese che rappresenta. Erdogan, comunque un presidente eletto più volte, può essere definito (peraltro in buona e nutrita compagnia) un leader nazionalista a tendenza progressivamente autoritaria, deriva in corso da anni, da quando è tramontata la prospettiva di un ingresso della Turchia in Europa.

Un Paese orgoglioso, cerniera fra Oriente e Occidente, ricco di storia e sensibile all’identità nazionale, una società civile che di fronte alla violazione dei diritti umani dimostra una coraggiosa resilienza democratica. Si ripropone qui il conflitto, o la problematica convivenza, che riguarda la natura delle relazioni internazionali: quale spazio ci sia per i valori e per i principi e quale sia il perimetro per tutto il resto. Non è solo una questione di business economico o di salvarsi l’anima. Il punto essenziale riguarda l’interesse nazionale, che non è una brutta parola: significa influenza politica in senso lato e sicurezza collettiva. Un bene pubblico nel segno del realismo politico.

Un Paese pontiere come l’Italia, dalla cultura consensuale, può e deve far valere le ragioni dello Stato di diritto, purché consapevole della posta in gioco e dei rapporti di forza. Spingere sulla dimensione valoriale presuppone avere alle spalle un Paese che ti segue sino in fondo e una strategia che duri nel tempo, sapendo che c’è un prezzo di pagare. Quando ci furono le sanzioni europee contro la Russia non risulta che il sistema economico italiano abbia brindato, anzi. Il problema è fin dove spingersi lungo una soglia sostenibile e quale condotta adottare quando si tratta di interloquire con Paesi dotati di standard istituzionali diversi dai nostri e con i quali si deve negoziare per ragioni di prossimità e di sicurezza del Paese.

La Turchia è un parametro indicativo e riassume i due estremi: contrattare o contrapporsi all’interlocutore che non piace, isolandolo? È un Paese Nato (partner difficile, ma pur sempre alleato), cruciale su tutti i dossier geopolitici ed energetici del Mediterraneo: gli è stata data in appalto la ben retribuita gestione delle frontiere orientali dell’Europa ed è il dominus a Tripoli. Sarebbe interesse dell’Europa riuscire a controllare i muscoli di Erdogan dentro una cornice contrattuale per governarne il movimentismo, e aspettativa dell’Italia trovare una formula cooperativa con Ankara sulla Libia. Due giorni dopo la visita di Draghi a Tripoli, il premier libico e ben 14 ministri sono stati chiamati a rapporto da Erdogan, giusto per rendere noto chi dà le carte della normalizzazione e della ricostruzione del paese. Certo, come suggerisce il «New York Times», può essere che il protagonismo di Draghi sia destinato a riempire il vuoto di leadership in Europa, fra la Merkel in uscita e Macron in difficoltà.

Il profilo dell’Italia oggi è un po’ più apprezzato, tuttavia proprio in questi giorni i due temi centrali dell’Europa (clima e questione russo-ucraina) sono stati discussi dalla cancelliera e dal presidente francese con i leader interessati. Non dall’Italia. E quando si arriverà al dunque, quando la solidarietà atlantica dell’America di Biden costringerà a scelte nette sulle sfide più insidiose con Russia e Cina, in Europa ricominceranno distinguo e dissonanze. E noi con chi staremo?

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