Fascismo, la storia non è al contrario

ITALIA. Secondo l’ex generale Roberto Vannacci i libri di storia, anche quelli scolastici, vanno riscritti. Almeno nelle pagine sul Ventennio fascista.

L’europarlamentare e vicesegretario della Lega sostiene che la presa di potere di Mussolini, come pure la legislazione approvata durante la sua egemonia politica, sarebbero state avallate dal regime del tempo, e dunque nei limiti di un placido processo democratico. Inoltre la marcia su Roma non sarebbe un colpo di Stato, ma una manifestazione di piazza. Il titolo del suo intervento ha un titolo esemplificativo «Ripetizioni per chi la storia l’ha studiata nei manuali del Pd». E per rafforzare l’immagine del «buonuomo Mussolini» promette di scrivere un nuovo manuale. Titolo: «La storia al contrario», sulla falsariga del suo bestseller che lo ha reso celebre. Nome perfetto, verrebbe da dire, per chi confonde le vittime con i carnefici.

Come strumentalizzare la storia

I politici hanno sempre cercato di strumentalizzare la storia. Ma nemmeno il Movimento sociale di Almirante l’aveva ridicolizzata e distorta in questo modo, facendola passare per buona, omettendo praticamente tutto del Ventennio, dagli omicidi di Matteotti e don Minzoni allo squadrismo feroce del Diciannove, dalle leggi razziali alle leggi «fascistissime» che trasformarono la Repubblica in dittatura, dalla repressione dell’Ovra all’alleanza in un conflitto sanguinoso a fianco di Hitler, con tutte le conseguenze che ne derivarono.

Questa interpretazione farlocca del fascismo si inserisce in un terreno fertile, quello del «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Mussolini mandava gli oppositori politici a fare le vacanze al confino». Poi si citano le Paludi Pontine. Insomma: lo stereotipo che il fascismo sia stata una forma di totalitarismo moderato, riformista, nella quale la violenza occupa un posto marginale, certamente inferiore a quello nazista. Uno stereotipo collegato a quello degli italiani brava gente. Teorie smentite dai fatti e dalla storiografia, tra i quali gli storici Marcello Flores e Giovanni Gozzini nel loro recente saggio «Perché il fascismo è nato in Italia» (Laterza).

Pensiamo ai crimini di guerra commessi dagli italiani in ambito coloniale, a cominciare dalle persecuzioni squadriste prese da esempio e perfezionate dalle Einsatzgruppen delle Waffen SS. In Libia nel 1930, dove, attraverso i campi di concentramento delle tendopoli dove morivano un quinto degli occupanti, più che a Dachau, così che, scrivono Flores e Gozzini, «tre anni prima della nomina di Hitler a cancelliere, il fascismo anticipa il metodi della Shoah nazista». Oppure in Etiopia, con i gas asfissianti, su espresso ordine del galantuomo Mussolini. E ancora, sempre a proposito degli italiani brava gente, i crimini di guerra nei Balcani a partire dal gennaio 1942, dove il generale Roatta capo della II Armata italiana in Jugoslavia si distinse per la ferocia, invitando a rispondere non «dente per dente» ma «testa per dente» facendo ammazzare persino chi passava per caso vicino ai monumenti pubblici.

Infine nella repressione documentata degli ebrei all’indomani delle leggi razziali del 1938 in campi di concentramento e lavoro, con il visto del duce. Per non parlare di quello che avvenne con la Repubblica di Salò, con l’avvio di veri e propri campi di sterminio, come la Risiera di San Sabba, a Trieste, dove operava Odilo Globocnik, di Aktion Reinhard, uno dei futuri artefici dei campi di sterminio polacchi. Il Manifesto di Verona del Partito fascista dispone l’arresto di tutti gli ebrei, rastrellati e avviati allo sterminio dai «ragazzi di Salò», compresi i beniamini della Decima Mas.

Il valore della memoria

Naturalmente il maggior antidoto a queste tesi strampalate, in questo tempo in cui sta venendo meno la memoria familiare trasmessa dai nostri vecchi, è lo studio della storia. Che non è mai al contrario, ma sempre diritta. Come la schiena dei 12 professori che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, perdendo tutti la loro cattedra.

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