(Foto di Ansa)
ITALIA. Per la seconda volta la Corte dei Conti ha bocciato il progetto del Ponte di Messina, altrimenti detto Ponte di Salvini.
Sembra che ci siano ancora cose che non tornano nelle carte esaminate dai giudici contabili. Un altro colpo alle ambizioni del ministro delle Infrastrutture che però, appresa la notizia, riesce a mantenere l’aplomb, niente invettive o denunce di complotti: «Me l’aspettavo, resto determinato» le uniche parole uscite dal ministero. Nervi tesi per il capo leghista, in costante campagna elettorale per difendere il suo secondo posto sul podio del centrodestra: la gara con Forza Italia non segna pause, tant’è che lui e Tajani nella comunicazione sulla manovra finanziaria sono ancora alla ricerca di un «più uno», insomma di un risultato da poter sbandierare davanti all’elettorato. Soprattutto a quello del Veneto dove si disputa una partita delicatissima per più versi. Salvini è riuscito a mantenere il posto di aspirante governatore per uno della Lega-Liga, il pupillo di Luca Zaia, Alberto Stefani, ma questo non ha risolto tutti i problemi.
Il primo è che, senza un candidato governatore da un milione di voti come Zaia nel 2020, Salvini ha paura di prendere in Veneto meno voti di Fratelli d’Italia, circostanza che equivarrebbe ad un terremoto sotto le suole del Capitano. E poi c’è sempre, irrisolto, il «problema Zaia»: il Doge non si è potuto ricandidare per divieto di legge, non gli hanno fatto fare la «sua» lista come nelle volte scorse, non ha potuto mettere il suo nome nel simbolo. Da capolista della Lega sta facendo comunque una minuziosa campagna elettorale secondo il vecchio stile, casa per casa, piazza per piazza, e sarebbe oltremodo problematico se lui personalmente prendesse la solita barca di voti ma la Lega finisse comunque in seconda posizione.
In ogni caso Salvini «sente» che deve ricollocare il Doge in una posizione dove non possa insidiare la sua leadership: ogni volta che può, Matteo candida Luca a qualche carica, da ultimo ieri ha detto che lo vedrebbe bene alla Camera (Stefani una volta eletto, lascerà il posto libero) o anche candidato sindaco di Venezia l’anno prossimo. Qualche tempo fa disse che lo avrebbe visto bene al Parlamento europeo, o anche ministro, perché no? L’interessato ha sempre risposto in modo gelido, anche perché pare che Salvini prima di questa sparate non lo consulti mai e lui ogni volta ricambia non prendendolo sul serio: «Adesso faccio la campagna elettorale, poi vedremo…». L’unica fortuna, per il Salvini in crisi di voti, è che la mille volte preannunciata rivolta contro di lui dei governatori (Zaia, Fontana e Fedriga), è come il nemico del Deserto dei Tartari di buzzatiana memoria: non arriva mai. E quanto a Vannacci, un po’ ammaccato dopo la sconfitta toscana, per ora non è chiaro cosa voglia fare da grande.
Arriva invece un partitello del Nord che potrebbe dare qualche fastidio al capo leghista: in quel di Treviglio è nato infatti il «Patto del Nord» messo in piedi da ex leghisti bossiani espulsi dal Carroccio salviniano. Il loro capo si chiama Paolo Grimoldi, proclama che «la Lega è morta», che Salvini perde tempo dietro al Ponte togliendo soldi ai settentrionali, e che la sua creatura sarà presente in massa alle comunali del 2026. All’assemblea dei pattisti c’erano un po’ tutti, da FdI a Forza Italia, da +Europa all’ex renziano Marattin, e si è fatto vivo anche Marco Osnato, coniugato con Mariacristina La Russa, pezzo grosso dei Fratelli d’Italia lombardi. Il padrone di via Bellerio però ha un suo cavallo di battaglia con cui rimanere sulle prime pagine e fare breccia: fare il bastian contrario negli aiuti all’Ucraina. È vero che non ha mai votato in dissenso con il governo (sarebbe stata crisi) ma è anche vero che non perde occasione per dire che ora di finirla di dare soldi «a quei corrotti» del clan Zelensky. Né Meloni né Crosetto né Tajani gli danno retta, persuasi - al netto degli imbarazzi - che quello di Matteo è solo teatro.
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