I bambini in pericolo,
l’emozione non basta

Li hanno trovati nella foresta distesi sotto i pini, in silenzio e terrorizzati. Mimetizzati in un cumulo di foglie secche di betulla per riscaldarsi e nascondersi dall’esercito polacco, che presidia la frontiera a caccia di migranti. Tra loro un figlio di un anno, morto di freddo e di stenti, e un altro più grande disidratato e denutrito. Sono le condizioni di «vita» di una famiglia siriana scappata dalla dittatura di Bashar al-Assad e da una guerra mai spenta, da fine settembre costretta a vivere un’altra fuga, braccata come un branco di animali pericolosi. Il padre perdeva sangue da un braccio ferito. La madre aveva tamponato con un berretto di lana lo squarcio di una coltellata a una gamba. Addosso il terrore di essere respinti verso la Bielorussia, al punto di non chiedere aiuto. A dare notizia dello straziante decesso, i volontari del Centro polacco per l’aiuto internazionale. Non è noto il nome del bimbo morto né sono state diffuse sue immagini.

A differenza di Alan Kurdi, tre anni, anche lui siriano ma di etnia curda, ritrovato senza vita nell’ottobre 2015 sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, naufragato insieme alla famiglia (si salvò solo il padre) quando la barca sulla quale viaggiavano, diretta in Grecia, andò a picco dopo aver colpito uno scoglio. La foto di Alan fece il giro del mondo e l’impatto fu così forte da smuovere anche i governi europei per qualche mese, alla ricerca di una politica comune sulle migrazioni. Ma fu una reazione dettata dall’emozione, sentimento destinato a spegnersi nel tempo, senza cambiare il carattere come invece la conversione alla carità o alla solidarietà. Del bambino di un anno morto di freddo e stenti nel bosco non ci sono foto e oggi, nella civiltà dell’immagine, ciò che non si vede non genera reazioni.

Ieri ricorreva la Giornata mondiale dell’infanzia e dell’adolescenza. L’organizzazione non governativa (ong) «Save the children», nata nel 1919 nel Regno Unito e attiva in 125 Stati, ha snocciolato in un rapporto numeri da brivido: 400 milioni di minori vivono in aree di conflitto, 258 milioni di bambini non hanno accesso all’istruzione (un sesto della popolazione totale in età scolare), più di un miliardo abita in aree ad alto rischio di inondazioni, grave siccità o altre minacce climatiche, nel 2020 sono stati 35,5 milioni i bambini migranti o rifugiati fuori dai propri Paesi e altri 23,3 milioni sfollati interni. Un aumento di quasi 10 milioni rispetto al 2015.

La denutrizione, seppur ridotta rispetto al passato, colpisce ancora 5,7 milioni tra chi è sotto i cinque anni. Nel solo Afghanistan sono 5 milioni i bimbi a rischio carestia, ovvero destinati a morte entro l’inverno. Oltre 2 milioni di piccoli nel mondo perdono la vita ogni anno anche a causa della malnutrizione, uno ogni 15 secondi. Eppure «Save the children» da sola nel 2020 ha sostenuto in varie forme quasi 45 milioni di bambini. Quali risultati potrebbero raggiungere i governi se investissero in una seria cooperazione internazionale allo sviluppo? Per la storica ong «è necessario un maggiore impegno delle istituzioni per proteggere e garantire i diritti dei minori, specialmente i più vulnerabili».

Le vittime sono nel Sud del mondo, ma non solo: in Italia negli ultimi 15 anni è cresciuta la povertà assoluta, con un milione di bambine, bambini e adolescenti in più senza lo stretto necessario per vivere dignitosamente.

A volte si ha l’impressione che si tutelino di più le merci dei poveri, anche minori. Eppure Convenzioni e leggi ci sono, come l’obbligo per gli Stati di vagliare le domande per il diritto d’asilo di chi fugge da guerre e persecuzioni, un dovere ormai violato anche in Europa. Il portavoce dell’Unicef Andrea Iacomini, a proposito del bambino morto di freddo, ha detto: «Tutti i Paesi europei hanno firmato la Convenzione per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ora non possono solo indignarsi, devono applicare ciò che hanno ratificato, l’Ue ha lasciato morire bambini e bambine in mare, adesso lasciano morire bambini e bambine di freddo. Non si può più dire “basta”, ci aspettiamo gesti concreti. Non si possono più sentire le parole di indignazione delle istituzioni del mondo che quando accadono queste cose riempiono i giornali di frasi circostanza». Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha scritto un testo amaro: «Fa male non poterti aiutare» riferendosi a ciascuno dei profughi al confine spinato tra Bielorussia e Polonia. Perché a quella frontiera è vietata perfino la solidarietà internazionale.

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