I fronti della guerra e le mosse fuori campo

A dispetto delle opposte propagande, che lavorano con grande impegno per la soddisfazione di chi scambia la guerra per un derby, la situazione sul campo sembra, per una volta, abbastanza chiara. Le forze armate ucraine hanno ricacciato verso Nord, rispetto alla capitale Kiev, quelle russe, che ora sono in difficoltà nell’area di Irpin, Bucia e Hostomel. Anche per questo risuonano nuovi allarmi, quelli che vogliono la Bielorussia pronta a entrare nel conflitto: se lo facesse, sarebbe proprio su quell’area che si lancerebbero le sue truppe. D’altro canto, per sostenere questa controffensiva, gli ucraini hanno abbandonato Mariupol’ al suo destino. L’avevamo anticipato proprio qui qualche giorno fa, allorché Oleksy Arestovich, portavoce del presidente Zelensky, aveva detto in video che a Kiev non bastavano le truppe per l’uno e l’altro fronte.

Sembra che la dirigenza politica e militare ucraina stia dando per persa la costa sul Mar Nero e punti invece a impedire a ogni costo l’eventuale presa di Kiev, con tutte le ricadute pratiche e simboliche che essa avrebbe.

Molto più confusa, invece, la situazione fuori dal campo di battaglia. Oggi Joe Biden è a Bruxelles per una quadruplice consultazione: con il Consiglio europeo, con la Nato, con i leader del G7 e con il Governo della Polonia. Ha già annunciato ulteriori sanzioni contro la leadership e l’economia della Russia e promesso di fornire altre e più potenti armi all’Ucraina, imitato da tutti i Paesi del Vecchio Continente. La realtà, però, è sempre quella: tanti complimenti agli ucraini, che però restano soli a combattere per quella che gli stessi leader europei definiscono la «libertà dell’Europa».

Su questo lato del problema tutto è chiaro. Sull’altro, cioè su quello che riguarda la Russia, invece non si capisce bene che si voglia fare. Il Cremlino si è lanciato in un’impresa folle e disastrosa anche per la Russia, su questo tutti sono d’accordo. Però, dopo un mese di combattimenti, non dà segno di voler fare marcia indietro. Forse rinfrancato dal rifiuto della Cina di aggregarsi al fronte anti-russo, Vladimir Putin tenta persino una reazione: la mossa di vendere gas e petrolio in rubli, potendo ovviamente stabilire il tasso di cambio del rublo, sa di Unione Sovietica ma crea all’Europa una difficoltà in più, con il prevedibile aumento del costo delle importazioni e quindi delle bollette. Per non parlare del prolungarsi della guerra: l’esercito russo non sarà travolgente ma intanto si allarga la scia di distruzioni, morti, rifugiati e profughi (quasi un terzo degli ucraini ha dovuto lasciare il suo abituale luogo di residenza, per spostarsi in altra regione o all’estero) che fa dell’Ucraina un Paese spossato e mutilato.

Insomma: abbiamo capito la tattica ma qual è la strategia? Davvero pensiamo che il «problema russo», ovvero la conciliazione del ruolo che i russi pensano di meritare con il ruolo che noi occidentali siamo disposti a concedergli, si risolva farneticando di uccidere Putin? Davvero qualcuno crede che una volta sparito Putin, sparisca il problema della Russia?

Tra i piccoli colpi di scena, infine, il consiglio di Zelensky a Biden: non sanzionate Abramovich, può fare da mediatore. Zelensky, come si sa, è di famiglia ebraica, Abramovich anche, come pure Ihor Kolomoisky, l’oligarca che favorì l’ascesa di Zelensky, e altri oligarchi ucraini. Qualcuno già straparla di lobby ebraica. Nessun mistero: Israele dopo la fine dell’Urss accolse più di un milione di ebrei russi e ucraini, ed è diventato un centro importante per contatti sull’Est europeo. La mediazione di Naftali Bennett, premier dello Stato ebraico, forse non è finita come sembrava.

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