I minori e i social: il divieto non basta

MONDO. Travolta dalle notizie che di giorno in giorno funestano le cronache internazionali, ce n’è una che è abbastanza passata sotto silenzio, eppure rappresenta una piccola rivoluzione, non foss’altro che per il fatto che è la prima volta che succede: l’Australia ha vietato l’utilizzo dei social network ai minori di 16 anni.

Non diventa tecnicamente impossibile per un under 16 creare un profilo in cui dichiara un’età diversa da quella che ha realmente, ma diventa obbligatorio per le piattaforme verificare la correttezza di quanto dichiarato. Gli strumenti esistono, secondo il legislatore australiano, ed è ora di farli funzionare smettendo di fingere di non sapere – e lo sanno benissimo, perché poi gli utenti sui social sono «profilati» per personalizzare gli annunci pubblicitari – che quel tizio che dichiara 24 anni in realtà ne ha 10 di meno, e dunque non dovrebbe stare lì perché stando lì corre seri pericoli.

Il principio può anche essere giusto, e tanti Paesi anche europei stanno considerando di seguire l’Australia sulla strada del divieto, cioè della responsabilizzazione delle piattaforme nei confronti dei minori. Ma resta un retrogusto amaro, di resa. Chiaro che i minori vanno tutelati, e se i migliori esperti sconsigliano la frequenza dei social network sotto una certa età, anche per le serie conseguenze psicologiche che rischiano, vanno ascoltati. Ma non ci si può illudere che fatto questo, allora siamo a posto così, e che lasciati fuori i più giovani, «dentro» possiamo continuare a fare il peggio che ci pare. E soprattutto: ma davvero basta responsabilizzare le piattaforme sulla tutela dei minori, e non invece – o anche – responsabilizzarle su ciò che gli adulti combinano? Giusto e sacrosanto evitare che i minori corrano il rischio di incappare nei peggiori malintenzionati che popolano i social. Ma non rischiamo di dare per scontato che nei social possano pascolare i peggiori malintenzionati, e che a questo non si possa porre rimedio?

I colossi del web: più responsabilità

Non sarebbe il caso di bussare energicamente alle porte delle «piattaforme» per chiedere loro di alzare le antenne e ripulirsi casa? Perché è ovvio che questi «colossi del web» necessitano di numeri sempre più alti per arricchirsi sempre più, e dunque mettono al lavoro gli algoritmi per favorire i contenuti peggiori (soprattutto Facebook, ma pure Tik Tok), ma perché mai i governi dovrebbero preoccuparsi eccessivamente dei profitti di giganti privati, americani o cinesi, specie se costruiti anche su ciò che avvelena i nostri dibattiti, o mette a rischio i nostri ragazzi?

Quindi giusto vietare a livello governativo, e ancor più giusto è vigilare a livello familiare. Ma non può passare automaticamente il concetto che queste piattaforme non siano mai responsabili di ciò che ospitano. Non può passare il concetto che chi gestisce «luoghi» in cui proliferano l’odio, le minacce, il razzismo, la peggiore disinformazione (di quest’ultimo aspetto ha parlato di recente anche il nostro presidente Sergio Mattarella) possa sempre e comunque rimanere spettatore e incassare «soltanto» enormi profitti. Senza mai preoccuparsi di verificare l’identità di chi accede, e di chi fa cosa a danni di altri.

Il divieto australiano appare quindi come estremo e necessario. Che diventa apprezzabile davanti all’irriducibile resistenza con cui le piattaforme social resistono a ogni tentativo di avvicinarle al mondo civile, dove chi insulta o minaccia, tendenzialmente, dovrebbe essere chiamato a risponderne e non dovrebbe potersi nascondere dietro profili fasulli o addirittura, di fatto, inesistenti.

Ma non può bastare. E azioni legislative serie per introdurre non solo divieti, ma l’obbligo di identità digitale sui social non potranno aspettare in eterno. «Spunta blu» per tutti, insomma (e non a pagamento...): può essere una via. E pazienza se il profitto di qualche fantastiliardario perderà uno zero, o anche più d’uno. Di fame non moriranno.

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