Il Cremlino non arretra

Guerra. Kirill, sedicesimo patriarca della Chiesa ortodossa russa, lo stesso che il 6 marzo 2022 dalla cattedrale di Cristo Salvatore in Mosca aveva «benedetto» l’invasione dell’Ucraina, ora chiede una tregua ai combattimenti per il Natale ortodosso.

Vladimir Putin accoglie la proposta: sarà tregua, lungo la linea di contatto, per trentasei ore, dalle 12 di oggi alle 24 di domani. Gli ucraini dicono no, Putin ribadisce che i russi comunque la osserveranno. Ce n’è abbastanza, in questa guerra dominata dalle bugie e dalle distorsioni delle opposte propagande, per sospettare un accorto gioco delle parti tra Patriarcato e Cremlino: in fondo, così facendo Putin mostra solo di rispettare l’autorità religiosa di Kirill e di accogliere un appello a sfondo umanitario, permettendo ai fedeli ortodossi delle zone dove si combatte di partecipare alle funzioni religiose. Lasciando naturalmente agli ucraini la responsabilità di bombardare quel Natale che è anche loro, almeno per i due terzi della popolazione.

Come sempre, la realtà è più complicata della sua prima lettura. È chiaro che Putin aveva bisogno di battere un colpo. Il bombardamento con cui gli ucraini, nella notte di Capodanno, hanno ucciso 89 soldati russi a Makeevka ha lasciato il segno nella società russa. I media (soprattutto quelli via Internet, meno controllabili) hanno chiesto a gran voce di punire i comandanti che non hanno saputo proteggere i soldati (tutti richiamati della regione di Samara), con una furia che è cresciuta quando il ministero della Difesa ha scaricato la responsabilità della strage sulle stesse vittime, colpevoli di aver troppo usato i cellulari, consentendo così la localizzazione della base.

Molti esperti militari hanno fatto notare che tutti i soldati portano con sé un telefono, che spesso con quegli stessi cellulari si manovrano i droni e si fanno partire le bombe, e che non era mai successo nulla di simile. Il rischio vero, per il Cremlino, era che al coro si unissero i vari Kadyrov (presidente della Cecenia) e Prigozhin (fondatore dell’esercito mercenario Wagner), che da tempo bombardano di critiche il ministro della Difesa Shoigu e il capo di stato maggiore Gerasimov, venendo peraltro rintuzzati da alcuni ex generali diventati parlamentari. Di fronte al rischio di una spaccatura al vertice, Putin doveva prendere un’iniziativa. E lo ha fatto.

Attenti però a considerarlo, obbligatoriamente, come un segnale di debolezza o di crisi. Joe Biden ha detto che «Putin cerca solo un po’ di ossigeno». Il presidente Usa forse dimentica che da quasi un anno la Russia combatte contro l’esercito ucraino (peraltro uno dei più potenti d’Europa, se non il più potente) e contro tutti gli arsenali, i servizi segreti, i consiglieri militari, le tecnologie, le industrie, i satelliti e le disponibilità finanziarie dell’Occidente e dei suoi alleati. E continua a farlo, nonostante che ciclicamente si annunci il crollo di Putin e del suo esercito, l’esaurimento degli armamenti russi, la rivolta delle truppe e così via. Tutto questo magari accadrà tra pochi giorni, ma finora non è successo.

E avremmo anche bisogno di conoscere meglio l’effettiva situazione al fronte. Per fare solo un esempio: ieri, fonti non ufficiali ucraine e russe hanno diffuso la notizia che il generale Zaluzhny, comandante in capo delle forze armate ucraine, avrebbe chiesto al presidente Zelensky l’autorizzazione a ritirarsi da Bakhmut, il centro del Donbass che ha valore strategico e per il cui controllo si combatte ormai da quasi sei mesi. Altro esempio: un gruppo di esperti militari inglesi ha spiegato che i droni che hanno colpito Kiev in queste settimane sono stati prodotti dopo l’estate, ovvero diversi mesi dopo il momento in cui l’esercito russo avrebbe dovuto esaurire le scorte.

È chiaro che, per tutte le ragioni di cui sopra e tante altre ancora, la Russia è in forte difficoltà, sia sul piano militare sia su quello economico. Sarebbe un grosso errore, però, darla per sconfitta e, ancor più, per rassegnata. La tregua proposta da Putin va presa per ciò che è: una mossa politica. Non è un segnale di resa. E nemmeno un gesto di buona volontà, un primo passo verso quella soluzione negoziale a cui lo ha esortato anche il leader turco Erdogan, che tenero certo non è.

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