Il discorso di Draghi e l’imbarazzo di Cinque Stelle e Lega

Si dice che il presidente ucraino Zelensky abbia tenuto, di fronte al Parlamento italiano, un discorso assai più morbido del solito: ha evitato di invocare la no-fly zone (del resto ormai ha capito che non gliela concederanno) e non ha chiesto di avere copertura aerea contro i russi. Chissà che questo tono non sia da mettere in correlazione con il colloquio avuto con Papa Francesco prima di collegarsi con Montecitorio. Sta di fatto che il presidente ucraino ha ricevuto dal governo e dal Parlamento italiano un sostegno molto fermo.

È stato Draghi ad interpretare al meglio questa posizione, senza alcuna ambiguità e anzi con nettezza adeguata alla gravità del momento. Tre punti centrali del discorso del premier. Primo: «Di fronte ai massacri – ha detto Draghi – l’Italia offre aiuti anche militari alla resistenza ucraina». Viene ribadita una scelta che ha trovato il sì di tutte le forze politiche di maggioranza e opposizione ma che, come è noto, crea non pochi mal di pancia all’interno di Lega e 5 Stelle. Da notare, nel discorso, l’uso della parola «resistenza», titolo negato agli ucraini da alcuni intellettuali di sinistra molto attivi in queste settimane nei talk show per dire il loro «né con Putin né con la Nato». Draghi la pensa in maniera completamente opposta e infatti Nicola Fratoianni, capo della frazione di estrema sinistra parlamentare, protesta per - dice - «le sue parole di guerra».

Secondo punto, Draghi conferma che l’Italia vuole che l’Ucraina entri in Europa nei tempi più rapidi possibili, e anche questa è una posizione non scontata.

Terzo elemento, la durezza con cui il presidente del Consiglio si è scagliato contro Putin e il governo russo: ha parlato di «ferocia» del primo e di «arroganza» del secondo, ha sottolineato più volte l’isolamento di Mosca, ha ricordato che in Italia abbiamo sequestrato 800 milioni di euro agli oligarchi russi, ha respinto il tentativo dello zar Vladimir di dividere l’Unione europea e la Nato. Insomma, ha concluso «di fronte all’inciviltà, l’Italia non volge la testa dall’altra parte».

C’è da chiedersi come, in cuor loro, abbiano reagito a tanta durezza gli alleati leghisti e grillini tra i quali esistono correnti filo-russe assai numerose, manifestatesi nel gruppo di parlamentari che hanno disertato il discorso di Zelensky e che avrebbero voluto una improbabile par condicio di videocollegamento con Putin. L’escrescenza del partito filo russo tra i grillini è rappresentata dal presidente della Commissione Esteri Vito Petrocelli che, per quanto renitente, presto si dovrà dimettere e probabilmente sarà cacciato dal movimento. Conte ha annunciato il pugno duro con lui ma sa che Petrocelli non è solo e che lui stesso è a rischio di cadere in contraddizione con cose dette e fatte quando presiedeva il governo negli anni passati, per esempio quando autorizzò i militari russi a girare nell’Italia del Covid o concesse alte onorificenze a quel funzionario del Cremlino che qualche giorno fa ha insultato il ministro Guerini e minacciato l’Italia.

Stesso imbarazzo per Matteo Salvini il quale ora dice che «non è felice» quando si parla di armi da mandare agli ucraini. In Senato c’è un pezzo di Lega che non vuole votare a favore dell’invio di aiuti militari a Kiev, ma Salvini sa che non può tirarsi indietro in questo. Se non altro perché Giorgia Meloni, il cui partito oggi si trova sopra di sei punti al Carroccio, è nettamente contro la Russia e a favore della Nato.

Sono contraddizioni che i due partiti di governo devono risolvere in fretta perché in questi tempi di ferro mostrarsi indecisi o titubanti sulle prove decisive significa mettere definitivamente a rischio il proprio futuro politico. Forse anche il presente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA