
(Foto di Foto di Etienne Girardet su Unsplash)
ITALIA. Sorprende, e merita attenzione, il dato emerso da una recente indagine condotta su migliaia di studentesse e studenti bergamaschi: oltre il 60% dei ragazzi tra i 16 e i 25 anni si dice ottimista rispetto al proprio futuro.
Un dato che colpisce ancora di più se si considera che questi giovani stanno crescendo e muovendo i loro primi passi nel mondo adulto in un’epoca tutt’altro che serena. A differenza dei ventenni di vent’anni fa – che hanno vissuto l’adolescenza in un clima relativamente stabile, privo di guerre visibili, di pandemie, di crisi globali quotidiane – i giovani di oggi sono immersi in un presente segnato da instabilità, incertezze, discontinuità. Eppure, nonostante tutto questo, continuano a credere nel futuro.
Non si tratta di un ottimismo ingenuo, ma di una forma di fiducia consapevole, che nasce dalla volontà di costruire una vita piena, giusta, significativa
È un segnale potente. Non si tratta di un ottimismo ingenuo, ma di una forma di fiducia consapevole, che nasce dalla volontà di costruire una vita piena, giusta, significativa. È il segno che, anche in un tempo difficile, molti ragazzi non rinunciano a immaginare, a progettare, a sognare. Non si fanno definire dalle paure, ma provano a trasformarle in possibilità. E questo – oggi più che mai – ci riguarda tutti.
Troppo spesso la narrazione pubblica sui giovani si fonda ancora sul deficit: li si descrive come fragili, disillusi, poco reattivi. Ma se li ascoltiamo davvero – non per giudicare, ma per imparare qualcosa – scopriamo una generazione viva, lucida, inquieta, che non cerca scorciatoie, ma spazi per esprimersi. Una generazione che non pretende tutto subito, ma chiede di essere messa in condizione di iniziare.
Forse dovremmo smettere di chiedere ai ragazzi cosa vogliono fare da grandi. E iniziare a chiederci, con onestà: che adulti stiamo scegliendo di essere, oggi, per meritarci la loro speranza?
Il fatto che questa fiducia sia più forte nella dimensione personale che in quella collettiva ci dice che molto lavoro resta da fare sul fronte del legame sociale, della credibilità delle Istituzioni, della coesione civica. Perché se ciascuno crede in sé stesso ma non nella società che lo circonda, allora c’è un vuoto di fiducia pubblica che va colmato. E questo è un compito che riguarda le scuole, le famiglie, l’università, ma anche il mondo della cultura, dell’impresa, della politica. La scuola, in particolare, ha una responsabilità enorme. Non è solo un luogo di trasmissione di conoscenze, ma lo spazio in cui si impara a pensare, a stare nel mondo, a immaginare il futuro. Perché la scuola sia davvero inclusiva e formativa, però, deve essere sostenuta: nelle strutture, nella formazione, nella motivazione degli insegnanti. Deve essere vista sempre di più non come un costo, ma come un investimento generativo, capace di restituire futuro al territorio e alle persone.
Dalle valli alle periferie urbane, molte comunità scolastiche continuano a offrire non solo conoscenze, ma occasioni di riscatto, crescita, cittadinanza
In questo senso, la scuola bergamasca – con le sue reti diffuse, il legame con il tessuto sociale, la vitalità dei suoi insegnanti – rappresenta ancora un presidio educativo di grande valore. Dalle valli alle periferie urbane, molte comunità scolastiche continuano a offrire non solo conoscenze, ma occasioni di riscatto, crescita, cittadinanza. È su queste esperienze che occorre investire, sostenendo chi lavora ogni giorno per rendere la scuola un luogo giusto, accogliente, esigente.
Anche l’università è chiamata a fare la sua parte. Non basta formare competenze: serve formare visioni, accompagnare alla complessità, educare alla cittadinanza. L’università, soprattutto in un territorio come il nostro, ha il potenziale per diventare davvero un laboratorio di trasformazione, un ponte tra saperi e comunità. Dove la cultura non resta chiusa nei libri, ma si fa esperienza, responsabilità, proposta. Ma l’educazione non si gioca solo nelle aule. Si costruisce nella società, nei luoghi in cui i giovani vivono, parlano, si incontrano. Si costruisce nelle famiglie, negli spazi culturali, nei teatri, nei campi sportivi, negli oratori, nei musei. Anche per questo serve una Bergamo che non si limiti a offrire ai giovani opportunità «una tantum», ma che li riconosca come interlocutori attivi, come cittadini di oggi e non solo di domani. Non basta chiederne il coinvolgimento: bisogna restituire ascolto, fiducia, spazio. La fiducia personale, infatti, si alimenta e si rafforza quando trova riscontro nella fiducia sociale. Quando i giovani vedono che il loro impegno viene accolto, valorizzato, riconosciuto. E anche in questo, Bergamo ha esempi preziosi: dal volontariato studentesco al servizio civile, dalle iniziative nei quartieri ai progetti culturali giovanili. Sono pratiche quotidiane che spesso non fanno notizia, ma che costruiscono senso, appartenenza, legami. È da qui che si rigenera la cittadinanza.
Non basta formare competenze: serve formare visioni, accompagnare alla complessità, educare alla cittadinanza
Il tema della prossima festa di Sant’Alessandro – «abitare il futuro» – ci ricorda che il futuro non è solo un tempo lontano: è qualcosa che comincia ora, che si costruisce nei gesti, nei pensieri, nelle scelte quotidiane. E «abitare» non è sinonimo di attendere: significa prenderne parte, assumersi responsabilità, portare bellezza. I giovani, con il loro sguardo aperto e nonostante tutte le ombre del presente, ci stanno dicendo che questo futuro vale ancora la pena di essere sognato. Tocca a noi, come adulti, non deludere questa fiducia.
Forse dovremmo smettere di chiedere ai ragazzi cosa vogliono fare da grandi. E iniziare a chiederci, con onestà: che adulti stiamo scegliendo di essere, oggi, per meritarci la loro speranza?
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