Il governo che verrà all’esame europeo

Che sia o no la «manfrina» di cui parla Matteo Renzi, l’armistizio tra Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi consentirà in primo luogo che il centrodestra vada unito alle consultazioni del Capo dello Stato e poi soprattutto che si arrivi rapidamente al varo della lista dei ministri rispettando lo scadenzario ipotizzato dalla presidente del Consiglio in pectore: sciogliere subito la riserva dopo l’incarico che arriverà presumibilmente venerdì ed entro lunedì prestare giuramento.

Questo è il dato politico del momento: dopo la falsa partenza, la maggioranza si rimette in carreggiata e va avanti. Quanto durerà? Lo sapremo solo più avanti, naturalmente, però va detto che non abbiamo certo visto l’irruzione sulla scena di una falange macedone.

L’incontro di un’ora e mezza tra Meloni e Berlusconi a via della Scrofa, sede di Fratelli d’Italia (come, prima, di An e prima ancora del Movimento sociale italiano) avrebbe sortito un accordo di massima sui ministri: dovrebbero essere cinque con Tajani agli Esteri (forse vicepremier) più Casellati alla Pubblica amministrazione e altri alla Transizione Ecologica, all’Istruzione, forse alla Giustizia (ma dovrebbe andare Carlo Nordio). Il Cavaliere ha chiesto almeno un ministero in più della Lega dal momento che Salvini, che ha avuto gli stessi risultati elettorali di Forza Italia, ha incassato l’elezione di Fontana alla presidenza della Camera. Non si sa se Meloni glielo abbia garantito. Di sicuro ha ribadito il no a Licia Ronzulli che Berlusconi voleva fortissimamente inserire nel governo fino a provocare l’incidente del mancato voto a La Russa per la presidenza del Senato e alla provocazione di esporre ai fotografi i suoi appunti con su scritti degli epiteti proprio verso Meloni e il suo atteggiamento di chiusura.

Ma Berlusconi è stato molto pressato in questi giorni perché si calmasse e facesse pace con Meloni. Si dice che su di lui avrebbero influito Gianni Letta – che era stato un po’ emarginato – sia i figli Marina e Piersilvio, mentre la fedele Ronzulli ha dovuto accettare la sconfitta. E così si è arrivati allo scambio di telefonate pacificatrici e all’incontro di via della Scrofa, dove Berlusconi aveva messo piede una sola volta in più di trent’anni.

Allo stesso modo la distribuzione dei ministeri ha abbastanza calmato le acque nella Lega dove Salvini sembra aver passato il momento più brutto del dopo-voto quando molti lo vedevano già sulla porta d’uscita. Viceversa proprio la frattura tra Meloni e Berlusconi gli ha consentito di giocare un ruolo attivo e di mediazione e di incassare dei risultati.

Così, con questi limiti, contraddizioni ed incertezze la destra-centro di governo che ha vinto le elezioni si avvicina al momento fatidico del debutto. Vedremo se la premier riuscirà a mantenere la promessa di un esecutivo «di alto profilo» – che insomma non abbia nulla da invidiare a quello dei «competenti» di Draghi - e di una squadra nutrita di personalità prestigiose e conosciute anche all’estero.

In ogni caso proprio i ripetuti rifiuti da parte di super-tecnici all’offerta di ricoprire il ruolo di ministro dell’Economia stanno portando alla scelta di Giancarlo Giorgetti, politico navigato, di formazione economica, per tanti anni presidente della Commissione Bilancio ma poco conosciuto nei club di Bruxelles e di Francoforte: sarà soprattutto lui però ad essere giudicato dai partner, dagli osservatori e dai mercati, curiosi di capire come si muoverà il nuovo governo di Roma. Sull’Ucraina nessuno avrà dubbi, sull’antiputinismo di Meloni neanche; restano le riserve sull’europeismo di una destra che ha messo la sordina al suo sovranismo ma che ha pur sempre mandato a dire ai nostri alleati che «è finita la pacchia» per chi considerava l’Italia un Paese malleabile.

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