Il rebus di Kabul
e i limiti insuperabili

Con il Governo varato nei giorni scorsi, il nuovo regime talebano di Kabul ha scodellato sulla comunità internazionale un rebus di complicatissima soluzione. Basta scorrere la lista dei ministri per capirlo. Il premier sarà il mullah Muhammed Hasan Akhund che, oltre a essere sulla lista Onu dei terroristi ed essere stato uno dei più fidati consiglieri del mullah Omar, ha molto contribuito a salvare i talebani dopo l’invasione a guida Usa del 2001, fondando la Shura di Quetta (il Consiglio di Quetta, città del Pakistan) e tenendo insieme i cocci del movimento. Il suo vice sarà Abdul Ghani Baradar, uno dei fondatori dei talebani. Alla Difesa Muhammed Yaqoob, figlio del mullah Omar.

Agli Interni Sirajuddin Haqqani, guerrigliero, specialista in attentati (l’Fbi ha messo su di lui una taglia di 5 milioni di dollari), figlio di un signore della guerra talebano come Jalaluddin Haqqani. E anche gli altri ministri sono personaggi che ebbero incarichi di Governo coi talebani che ressero l’Afghanistan tra il 1996 e il 2001.

In sostanza: personaggi temibili, pericolosi, che per di più rivendicano con orgoglio la discendenza da quei talebani che, due decenni or sono, placarono la guerra civile afghana solo per precipitare il Paese e la sua popolazione in un incubo politico-religioso quale mai si era visto prima. Ci si può stupire e scandalizzare ma solo fino a un certo punto.

Dopo tutto, questi sono i leader con cui gli Usa, e tramite loro un buon numero di altri Paesi, hanno trattato per anni (Baradar guidava la delegazione talebana ai colloqui di Doha), quelli con cui hanno patteggiato di potersi ritirare da Kabul senza attacchi o minacce.

Resta però la domanda più spinosa: che fare adesso? Che fare per aiutare la popolazione afghana. E come regolarsi con un Paese che, a quanto pare, sarà governato da miliziani e terroristi.

In realtà le due questioni si fondono in un unico problema, perché dal modo in cui approcceremo la dirigenza talebana dipenderà la misura in cui potremo aiutare gli afghani.

Il tutto in un Paese che, prima del ritiro degli occidentali, già dipendeva dagli aiuti internazionali per il 40% del Pil.

La prima responsabilità, è ovvio, ricadrà sui Paesi che i talebani hanno eletto a interlocutori privilegiati: Cina, Russia, Pakistan, Qatar, Turchia. E questa è già una grossa incognita, perché sono Paesi che potrebbero anche fare molto per aiutare l’Afghanistan, se non fosse che sono privi di coordinamento e hanno interessi economici e strategici del tutto diversi.

Ma i Paesi del blocco occidentale, Stati Uniti in testa, possono ora disinteressarsi di quel popolo che vent’anni fa hanno liberato dal giogo talebano e dalla metastasi di Al Qaeda, al quale per vent’anni hanno dedicato denaro, energie e, soprattutto, a cui hanno ripetuto che mai e poi mai la Storia si sarebbe ripetuta?

Mettere d’accordo i due mondi sarà difficilissimo, e le avvisaglie si sono già viste al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la Cina impegnata a ridimensionare le proposte francesi su Kabul.

Eppure qualcuno, in qualche modo, dovrà parlare con i talebani, ora che sono tornati al potere. Se non altro per far capire loro che ci sono dei limiti che non possono essere superati. Lo dobbiamo agli afghani.

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