Il silenzio per tornare ad educare tutti insieme

ITALIA. Cosa si può dire che non sia già stato detto ogni qual volta accadono tragedie come quella avvenuta in città la notte tra sabato e domenica, quando è un ragazzo a togliere la vita ad un altro ragazzo, per di più per futili motivi come il tifo calcistico? Forse è meglio non dire nulla, sforzandosi di contenere la rabbia e l’indignazione che ci monta dentro per un atto di così inaudita violenza, impossibile da comprendere e tanto più da giustificare.

Ma stare in silenzio non vuol dire rassegnarsi al fatto che oggi il mondo va così, liquidando un omicidio come il frutto dell’incapacità dei giovani di adattarsi alle regole e di rispettare i divieti, giustificando in qualche modo la violenza dei loro comportamenti come la naturale conseguenza dello smodato consumo di alcol o di droga a cui si abbandonano perché altro non sanno o non vogliono fare. Al contrario, il silenzio deve avere in sé la forza per avviare un approccio diverso, che cerchi di capire perché tutto ciò che accade, a Bergamo come a Monreale, o in qualsiasi altra città d’Italia. Va bene il disagio giovanile, il vuoto pneumatico in cui vivono e da cui non sanno come liberarsi, va bene il Covid che ha amplificato a dismisura il loro malessere, va bene l’incapacità di riconoscere la realtà vera dalla realtà virtuale in cui sono costantemente immersi attraverso lo schermo del cellulare, ma tutto questo deve essere solo un punto di partenza, non un punto di arrivo.

Il valore della vita

Oggi molti dei nostri giovani sono incapaci di dare valore alla vita umana, la propria o quella degli altri, poco importa. Scambiano la violenza verbale dei social piuttosto che quella fisica dei videogiochi come metro su cui misurare la propria forza nei confronti del prossimo, coetaneo o meno. Per non parlare degli affetti, incapaci di averne, vittime di un autismo relazionale mai registrato prima nella nostra società.

Cosa possono fare i giovani se il mondo adulto che dovrebbe essere loro di esempio ha assunto come modello proprio quello giovanile, in nome di una immortalità perenne?

Ma è davvero tutta colpa loro? Quando loro crescevano, noi adulti dove eravamo? Chi li educava? Quei valori che loro non ri-conoscono, glieli abbiamo trasmessi davvero, o - forse - siamo noi i primi a non crederci più? Siamo stati davvero credibili in questa particolarissima trasmissione del sapere oppure non così tanto? Cosa possono fare i giovani se il mondo adulto che dovrebbe essere loro di esempio ha assunto come modello proprio quello giovanile, in nome di una immortalità perenne? Il disagio che loro manifestano non è lo stesso in cui - forse inconsciamente - siamo immersi anche noi adulti, a cui torna invece più utile far finta di nulla per non scalfire in alcun modo l’opinione che gli altri hanno di noi? Noi fingiamo perché alla fine ci torna più comodo, loro - invece - vanno in tilt e si affidano alla violenza per farci vedere che esistono, per dimostrarci che loro le convenzioni sono capaci di ribaltarle. Non ha senso, lo sappiamo tutti, anche perché dovrebbero sapere di compiere un crimine per il quale esiste un principio di responsabilità essenziale, ma potrebbe essere una lettura diversa per iniziare un percorso.

l disagio che loro manifestano non è lo stesso in cui - forse inconsciamente - siamo immersi anche noi adulti, a cui torna invece più utile far finta di nulla per non scalfire in alcun modo l’opinione che gli altri hanno di noi?

Il disagio dei ragazzi e dei giovani - ha scritto recentemente il prof. Giuseppe Maiolo, docente di Psicologia dell’età della vita all’Università di Trento, indagando questi aspetti poco dopo la fine della prima ondata del Covid - «mi pare invece sia espressione del disagio collettivo che viviamo tutti da un bel po’ di tempo. Credo che la mancanza di prospettiva, l’assenza di un futuro da progettare e l’incapacità di mantenere viva la speranza non appartenga solo al tempo della pandemia. Stiamo dentro un tessuto sociale, culturale, educativo che da molto tempo non contiene prospettiva e speranza ma ti inchioda al presente con un orizzonte corto, quello del display iper-presente nelle mani di tutti. Negli adolescenti, chiamati a crescere dentro il lockdown, è spesso una sofferenza silenziosa, nascosta che alimenta l’angoscia, il terrore dell’esistenza e anche la disperazione».

Mancanza di prospettiva, assenza di un futuro o incapacità di progettarlo

Mancanza di prospettiva, assenza di un futuro o incapacità di progettarlo, nessuna propensione alla speranza e a coglierne la forza intrinseca sono fenomeni tipici del nostro tempo, come peraltro ci restituisce anche la situazione internazionale, mai così precaria da ottant’anni a questa parte, in Europa e nel mondo. Se gli adulti non sono in grado di gestire quello che sembra diventare ogni giorno che passa un fardello sempre più pesante, perché mai dovrebbero essere capaci di affrontarlo i nostri giovani? Sono figli di una società dell’eccesso, in cui tutto è contrapposizione radicale, tra tribù, forse anche perché i loro stessi genitori hanno smarrito il senso dell’equilibrio. Probabilmente abbiamo fatto di tutto per loro, forse però non lo abbiamo fatto nel modo giusto, eliminando dal loro percorso ogni sorta difficoltà, «dipingendo» la vita davanti ai loro occhi piena di sole, con molti colori, privandola invece dei bianchi e dei neri, tinte capaci di fare la differenza tra il bello e il brutto, tra il bene e il male.

Di condannare siamo tutti maestri, ma la tragedia di oggi ci sia d’aiuto per cominciare a capire, per cominciare a cambiare, per provare a recuperare quell’antica sapienza che si fonda sui veri valori della vita. Cerchiamo di farlo nelle nostre case, in famiglia, nelle nostre scuole e nei luoghi di lavoro dove oggi trascorriamo la parte più rilevante della nostra vita. Ricominciano nell’anno del Giubileo, perché - come ha detto Papa Francesco - «dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante».

Di condannare siamo tutti maestri, ma la tragedia di oggi ci sia d’aiuto per cominciare a capire, per cominciare a cambiare, per provare a recuperare quell’antica sapienza che si fonda sui veri valori della vita

Ma alla speranza non possiamo non affiancare anche la compassione e la carità. La compassione per la madre di chi si è visto portare via un figlio, la carità per la madre il cui figlio ha tolto la vita a un coetaneo. Due donne già provate da altre tragedie, due donne che porteranno ciascuna la propria croce. Per sempre. «È la tragedia che resta – scrisse monsignor Andrea Spada nel 1964 riflettendo su un’analoga vicenda -, che continua, e sulla quale solo la pietà di Dio e delle creatura umane potrà portare lume e speranza».

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